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Danni in famiglia: l’amante deve risarcire il danno?

L’adulterio è una violazione del dovere di fedeltà coniugale e può essere motivo di addebito della separazione, se si dimostra che ha causato la frattura del matrimonio. Se poi la relazione extraconiugale viene condotta con modalità offensive della dignità del coniuge, può essere ragione di risarcimento dei danni.

In questo caso, non c’è dubbio che chi viene tradito possa chiedere il risarcimento dei danni al marito o alla moglie fedifraghi. Ma può chiedere il risarcimento dei danni anche all’amante del coniuge? Dopo tutto, l’amante con il suo comportamento contribuisce alla crisi coniugale. Può quindi essere considerato a sua volta responsabile legalmente dei danni subiti dal coniuge tradito?

Con la sentenza n. 156 del 29 marzo 2022 la Corte d’Appello di Perugia ha affrontato un caso emblematico.

La vicenda

I fatti esaminati dai giudici umbri riguardano una richiesta di risarcimento danni presentata dal marito nei confronti della moglie, dalla quale nel frattempo si era separato, e dell’amante di lei.

Il marito, in particolare, aveva chiesto 600.000,00 euro di risarcimento, di cui 200.000,00 per sé e 200.000,00 per ciascuno per i due figli minori avuti dalla moglie.

Secondo l’uomo, il tradimento delle moglie era stato la causa della separazione e della disgregazione della famiglia. Egli sosteneva, poi, che la moglie e l’amante di lei avevano avuto comportamenti lesivi della sua dignità e del suo onore: i due avevano, tra l’altro, pubblicato sui social post nei quali lo offendevano e, con riferimenti allusivi alla sua persona, si prendevano gioco di lui.

La decisione

La Corte d’Appello di Perugia ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni rivolta all’amante della moglie.

I giudici, in particolare, hanno escluso in capo all’amante ogni responsabilità, evidenziando che gli unici comportamenti illeciti sono ascrivibili alla moglie che ha tradito il marito, così violando l’obbligo di fedeltà.

L’amante della moglie, infatti, è una persona terza rispetto al matrimonio e non ha alcun obbligo nè dovere nei confronti del coniuge dell’altro, anzi è libero di esprimere il proprio diritto di autodeterminazione e la sua personalità come crede opportuno, anche frequentando e intrattenendo una relazione con una persona sposata.

Recita la sentenza: non è ravvisabile in capo ai terzi un generico dovere di astensione dall’intrattenere rapporti con persone coniugate. L’amante deve dirsi libero di intrattenere relazioni interpersonali anche con persone sposate nell’esercizio del proprio diritto di autodeterminazione, del diritto alla libera esplicazione della personalità, nonché della propria libertà sessuale, costituzionalmente garantiti.

Insomma, chiedere i danni all’amante del coniuge contrasta con la Costituzione.

 

Genitori separati: a chi spetta l’Assegno Unico e Universale?

Secondo il tribunale di Bari, spetta al 100% al genitore convivente con i figli.

Più in particolare, con una sentenza pubblicata il 3 febbraio 2022 il tribunale di Bari ha stabilito che, in caso di genitori separati, le prestazioni erogate dall’INPS a tutela della famiglia devono andare in favore del genitore che ha la collocazione  dei figli.

Nella motivazione della sentenza, il tribunale richiama una sentenza della Corte di cassazione secondo cui il legislatore nella normativa in materia di assegni familiari ha inteso favorire il coniuge affidatario dei figli e sancito il diritto di quest’ultimo a percepire gli assegni familiari indipendentemente da chi sia titolare del rapporto di lavoro posto alla base dell’erogazione. Applicando questo principio – afferma il tribunale di Bari – anche l’assegno unico, che ha preso il posto degli assegni per il nucleo familiare, spetta per intero al genitore convivente coi figli.

Attenzione, però: si tratta soltanto di una interpretazione.

Le indicazioni dell’INPS

Qualche giorno fa, l’INPS si è espressa in senso diametralmente opposto: infatti, con il messaggio n. 1714 del 20 aprile 2022 l’INPS ha chiarito i principi che presiedono l’attribuzione dell’Assegno Unico e Universale in favore dei minorenni ai genitori separati.

Le regole variano a seconda del tipo di affidamento e sono le seguenti:

In caso di affidamento condiviso

Il principio generale è che l’Assegno Unico e Universale viene erogato al 50% ciascuno ai genitori che hanno l’affidamento condiviso dei figli.

Tuttavia, resta salva la facoltà dei genitori di concordare che il contributo venga erogato per intero solo a uno dei due.

Dunque, i genitori possono accordarsi nel senso che l’assegno spetti per intero al genitore che ha la collocazione prevalente dei figli. Ma attenzione: devono essere entrambi d’accordo! Se uno dei due dice di no, l’assegno viene attribuito in automatico al 50%.

In caso di affidamento esclusivo

L’assegno viene sempre erogato per intero al genitore che ha l’affidamento esclusivo.

Se lo ha stabilito il giudice

Inoltre, se il giudice, nel provvedimento che disciplina la separazione di fatto, legale o il divorzio dei genitori, ha disposto che dei contributi pubblici usufruisca uno solo dei genitori, l’assegno viene sempre erogato a un solo genitore, a prescindere dal tipo di affidamento, .

Cosa fare se la domanda presentata da un genitore non rispetta le regole?

Se un genitore ha presentato la domanda chiedendo l’attribuzione al 100% in violazione delle regole di cui sopra, l’altro genitore  può presentare all’INPS istanza di revisione della domanda, allegando la documentazione a sostegno della sua richiesta (ad esempio, il provvedimento del tribunale che dispone l’affidamento condiviso).

 

Se il marito resta senza lavoro deve continuare a pagare l’assegno di mantenimento alla moglie?

Sì, ma solo se permane un divario tra le condizioni economiche dei coniugi.  Se il reddito del marito rimane superiore a quello della moglie, l’assegno va ridotto, ma non eliminato.

 

Le regole della separazione e del divorzio possono cambiare

Le disposizioni economiche della separazione e del divorzio non sono immutabili nel tempo, ma possono cambiare se cambiano i redditi e il patrimonio dei coniugi o degli ex coniugi.

Pertanto, quando il coniuge tenuto al versamento dell’assegno peggiora la propria condizione economica può rivolgersi al giudice per ottenere la revisione di quanto stabilito nella separazione, domandando la riduzione o l’eliminazione dell’assegno.

Il giudice dovrà rivalutare la condizione economica di entrambi i coniugi e verificare quale sia l’assetto attuale e quanto il cambiamento abbia inciso sulle condizioni economiche delle parti.

Il cambiamento, per fondare la modifica delle precedenti prescrizioni, deve essere rilevante e stabile. Non basta un cambiamento temporaneo o con effetti limitati nel tempo

 

Se il marito perde il lavoro …

In un recente caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano il marito ha chiesto la modifica delle condizioni di separazione dichiarando che la società di cui era amministratore aveva cessato l’attività e di essere pertanto rimasto privo delle relative entrate. Al momento della separazione egli percepiva compensi come amministratore della società e una pensione. Con l’estinzione della società, gli era rimasta solo la pensione.

Alla luce del peggioramento delle sue condizioni economiche, il marito ha chiesto che venisse tolto l’assegno di 2.000,00 € per il mantenimento della moglie previsto al momento della separazione.

I giudici hanno ribadito che la modifica delle condizioni reddituali dei coniugi incide sulle regole relative al mantenimento e consente di rimodulare l’assegno, ma non lo fa venire meno automaticamente.

Nel caso specifico, hanno ritenuto che fosse comunque necessario riconoscere un contributo alla moglie, perché, anche se il marito aveva peggiorato la sua condizione finanziaria, rimaneva comunque un sensibile divario nell’assetto economico dei coniugi. Se il marito si era impoverito, la moglie se la passava peggio, in quanto del tutto priva di redditi.

L’assegno per la moglie è stato così ridotto a 500 € mensili, ma non è stato eliminato.

 

Fonte: Corte d’appello di Milano decreto 27 ottobre 2021

Recupero delle spese straordinarie per i figli: la Cassazione cambia le regole

Con una recentissima sentenza, la n. 40992 del 21 dicembre 2021 , la Cassazione ha stabilito che per il recupero delle spese straordinarie anticipate da uno dei genitori nell’interesse dei figli non è più necessario richiedere un decreto ingiuntivo, ma si può procedere direttamente con l’atto di precetto, allegando la documentazione di spesa.

Si tratta di una decisione importante che avalla un orientamento interpretativo già emerso in passato (v. Cassazione n. 4182/2016), anche se minoritario.

Cosa cambia in concreto?

Vediamolo assieme, partendo dalle basi.

Cosa sono le spese straordinarie per i figli?

Si tratta delle spese per i figli che riguardano la salute, la scuola, le attività sportive, i corsi, le vacanze studio e tutto ciò che non rientra nel mantenimento ordinario dei figli. Fanno parte del mantenimento ordinario le spese di vitto, alloggio, igiene personale, quali barbiere, parrucchiere, estetista e quanto necessario alle ordinarie esigenze di vita del figlio.

Quando i genitori si separano, si stabilisce che il genitore che non vive stabilmente con il figlio versi un importo fisso mensile per il mantenimento ordinario del figlio, mentre le spese straordinarie sono poste a carico di  entrambi i genitori, di norma in misura del 50% ciascuno.

Qual è la percentuale di contributo alle spese straordinarie?

Nella maggior parte dei casi, la percentuale di concorso alle spese straordinarie è del 50%. Il che significa che ciascun genitore è tenuto a provvedere a metà della spesa.

Ma la misura del contributo può variare in base alle condizioni economiche dei genitori: ad esempio, se c’è una notevole differenza tra i redditi, il genitore più ricco provvede in misura maggiore (al 60%, 70% o all’80% alle volte anche al 100%) rispetto all’altro genitore.

Come funziona in concreto?

Di solito un genitore anticipa la spesa, pagandola per intero, e poi si fa rimborsare la quota dovuta dall’altro genitore.

In quasi tutti i tribunali sono stati adottati documenti operativi, chiamati protocolli sulle spese straordinarie,  nei quali sono indicate le modalità concrete per la richiesta di rimborso: ad esempio, è stabilito che la richiesta va fatta  per iscritto allegando la documentazione di spesa e che il rimborso dev’essere effettuato entro un termine prestabilito (generalmente, entro 15 giorni dalla richiesta).

Il limite dei protocolli è che valgono solo per la zona di competenza territoriale (chiamata “circondario”) del tribunale in cui sono stati emessi, con la conseguenza che spostandosi anche di pochi chilometri (da Bologna a Ferrara, ad esempio) le regole cambiano sensibilmente.

Le spese straordinarie devono essere concordate dei genitori?

In linea generale, se è stato disposto l’affidamento condiviso si presume che i genitori siano in grado di portare avanti assieme un progetto educativo comune e, pertanto, che siano in grado di prendere assieme le decisioni migliori nell’interesse dei figli. La decisione alla base di una spesa, dunque, andrebbe sempre concordata.

Ma nella realtà non è sempre così. Specialmente nelle vicende familiari molto conflittuali succede che non sia sempre possibile concordare ogni singola spesa.

Se i genitori non si mettono d’accordo?

La Corte di Cassazione ha dettato alcune regole, stabilendo che alcune voci di spesa sono comunque dovute da entrambi i genitori, anche se decise da uno solo, ma nei tribunali non c’è uniformità di vedute.

Indubbiamente, ci sono alcune voci di spesa che non debbono necessariamente essere concordate dai genitori: si tratta di spese che non sono discutibili e che vanno in ogni caso pagate. Si pensi alle spese per i libri scolastici o l’abbonamento ai mezzi pubblici o l’assicurazione scolastica. Sono spese in qualche modo necessarie, che si considerano di per sé rispondenti all’interesse dei figli.

Sulle altre spese, invece, vengono in aiuto i protocolli adottati nei tribunali. Alcuni protocolli indicano espressamente quali tipi di spese debbano essere concordate e quali no, altri fissano un tetto massimo di spesa mensile, oltre il quale, a prescindere dalla tipologia di spesa, è in ogni caso necessario l’assenso di entrambi i genitori.

Cosa succede se l’altro genitore non paga?

Il genitore che ha anticipato la spesa ha diritto ad ottenere il rimborso della quota dovuta dall’altro genitore.

La giurisprudenza prevalente ha finora sostenuto che per poter chiedere il rimborso delle spese straordinarie non è sufficiente il provvedimento di separazione, divorzio o  comunque il provvedimento che regola il mantenimento dei figli, ma è necessario un ulteriore passaggio davanti al giudice.

Finora, serviva il decreto ingiuntivo

In concreto, per ottenere il pagamento delle spese straordinarie anticipate non basta la sentenza di separazione  o di divorzio o il decreto che disciplina il mantenimento dei figli, ma bisogna rivolgersi nuovamente al giudice, chiedendo l’emissione di una ingiunzione di pagamento (decreto ingiuntivo) e solo con questo nuovo provvedimento si può agire con il recupero forzato del credito mediante il pignoramento del conto corrente o dello stipendio, ad esempio.

Lo scopo di questo secondo passaggio davanti al giudice è tutelare la posizione del genitore che deve pagare, facendo in modo che le spese siano vagliate dall’autorità giudiziaria chiamata a  verificare che la richiesta di rimborso sia fondata, cioè che le spese siano state effettivamente sostenute nell’interesse dei figli.

Questa procedura però allunga notevolmente i tempi del recupero del credito, a danno del genitore che ha anticipato le spese. Il decreto ingiuntivo infatti può essere opposto, e ciò dà avvio ad una vera e propria causa, con la conseguenza che  il rimborso rimane sospeso, congelato fino alla fine della causa. E alle volte accade che l’opposizione venga avviata senza un reale fondamento giuridico, ma solo al fine di ritardare il più possibile il pagamento.

Ora la Cassazione sembra aver cambiato rotta: per semplificare l’iter del rimborso delle spese straordinarie non  pagate ha stabilito che la sentenza di separazione, divorzio o che regola il mantenimento dei figli è sufficiente e non serve più tornare in tribunale.

Cosa cambia con la recente decisione della Cassazione?

La recentissima decisione della Corte di Cassazione apre la strada ad una nuova modalità di rimborso, più veloce per chi ha anticipato la spesa e comunque tutelante per chi deve pagare.

Da un lato, il genitore che ha anticipato al spesa può subito chiedere il rimborso, senza doversi rivolgere nuovamente al giudice: con il provvedimento di separazione o divorzio o il provvedimento che regola il mantenimento dei figli si può predisporre l’atto di precetto con il conteggio delle spese anticipate e notificarlo all’altro genitore assieme alla documentazione delle spese anticipate. Decorsi dieci giorni dalla notifica, in mancanza di pagamento, si può procedere in  via esecutiva, mediante il pignoramento dello stipendio o del conto corrente, ad esempio.

Dall’altro, il genitore che riceve la notifica del precetto ha comunque la possibilità di tutelarsi, se le somme richieste non sono dovute, facendo opposizione al precetto.

Si può concludere che il decreto ingiuntivo d’ora in poi non servirà  più? In realtà è ancora presto per trarre conclusioni. Bisogna attendere le decisioni dei tribunali o un intervento della Cassazione a Sezioni Unite per capire se la modalità indicata nella recente sentenza della Cassazione diventerà quella prevalente.

 

Fonte:  Cass. Civ., Sez. III, sent. 21 dicembre 2021, n. 40992 – Pres. Vivaldi,

Genitori separati e vacanze estive

L’estate, si sa, è il momento in cui si fanno le ferie, ci si riposa, si stacca la spina per ricaricare le pile. Tra genitori separati, tuttavia, l’organizzazione delle vacanza è spesso motivo di contrasto. Infatti non è sempre semplice gestire le diverse esigenze di ciascuno dei componenti della famiglia separata. I provvedimenti giudiziari sono di aiuto poiché disciplinano anche le modalità di gestione delle ferie, ma alle volte non è tutto chiaro. Ecco alcuni dei quesiti che mi vengono posti più di frequente.

Come organizzano le vacanze estive i genitori separati?

Nei provvedimenti che regolano la separazione, il divorzio o l’affidamento dei figli di genitori non sposati viene stabilito un calendario dei tempi di permanenza del figlio presso ciascuno dei genitori. Tale calendario disciplina specificamente anche il periodo estivo:  si stabilisce quanto tempo il figlio può trascorrere con ogni genitore per le vacanze estive e se il periodo debba essere concordato tra i genitori o solo comunicato dal genitore non convivente (al quale si tende a dare la priorità in quanto è il genitore che di norma trascorre meno tempo coi figli secondo il calendario ordinario).

Viene anche stabilito il termine entro il quale i rispettivi periodi di vacanza vanno concordati o comunicati (di solito entro fine aprile o fine maggio).

E se entrambi i genitori hanno le ferie nello stesso periodo?

In alcuni provvedimenti giudiziari è stabilito che in caso di disaccordo sui periodi di interesse di ciascun genitore, negli anni pari prevale un genitore e negli anni dispari l’altro.

Se manca una previsione simile e nessuno dei genitori vuole cedere, sarà necessario rivolgersi al Giudice per dirimere il conflitto.

Quanto durano le vacanze estive coi figli?

Non ci sono limiti di legge. Ogni situazione è a sé e ogni famiglia separata ha le sue esigenze e le sue abitudini. Molto dipende anche dall’età dei figli.

Nei provvedimenti viene stabilita la durata dei periodi di vacanza. Con figli in età scolare si prevedono in genere due o tre settimane con ciascun genitore, anche continuative. I periodi, però possono essere più lunghi, fino a dividere al 50% tra i genitori il periodo delle vacanze scolastiche estive.

Il mancato rispetto delle regole stabilite nel provvedimento giudiziale sui periodi di vacanza costituisce reato ai sensi dell’art. 388 c.p.

Devo comunicare all’ex dove andrò in vacanza coi miei figli?

Sì, vi è un preciso obbligo di informare l’altro genitore sul luogo in cui il figlio verrà condotto in vacanza e di fornire l’indirizzo esatto ed i recapiti telefonici.

La mancata comunicazione non integra reato penale, ma è rilevante in ogni caso sotto il profilo civilistico, poiché costituisce violazione dell’obbligo di collaborazione tra i genitori nell’interesse della prole e contrasta con i principi dell’affidamento condiviso.

La mancata comunicazione può essere punita ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. con una sanzione amministrativa e col risarcimento del danno.

Chi paga le vacanze dei figli?

A meno che non sia stabilito diversamente nel provvedimento che regola la separazione dei genitori, ciascun genitore paga di tasca propria le spese delle sue vacanze coi figli.

Soltanto i costi delle vacanze che il figlio fa da solo per ragioni di studio o assieme agli amici, così come le spese dei soggiorni-studio all’estero rientrano nelle spese straordinarie da dividere al 50% tra i genitori. La decisione va previamente concordata.

Durante il periodo di vacanza posso non versare o ridurre l’assegno mensile?

No, non è possibile. La Cassazione ha chiarito in maniera univoca che l’assegno per il mantenimento dei figli va versato per intero anche nel mese in cui si trascorre un periodo di ferie con i figli.

Posso portare all’estero i miei figli?

Il genitore separato può portare i figli all’estero con sè senza necessità del consenso dell’altro genitore, a meno che nel provvedimento che regola la separazione o l’affidamento dei figli non sia espressamente stabilito che l’espatrio del figlio minorenne dev’essere previamente autorizzato dall’altro genitore o non sia stabilito un vero e proprio divieto di espatrio (che comunque richiede specifiche ragioni).

Per approfondire la questione del rilascio e rinnovo del passaporto o della carta di identità per l’espatrio si veda questo articolo: Rilascio del passaporto e conflitto tra genitori 

Gli accordi economici della separazione vincolano il giudice del divorzio?

Separazione e divorzio sono due procedimenti distinti. Il giudice del divorzio decide autonomamente e non è vincolato da quanto stabilito nella separazione.

Se, ad esempio, nella separazione si prevede un assegno vita natural durante per la moglie. L’assegno verrà conservato anche al momento del divorzio? Dipende.

Il giudice potrebbe confermarlo, ma non vi è alcuna certezza.

Che peso hanno, allora, le regole economiche fissate nella separazione?

Indubbiamente le regole economiche definite nella separazione rappresentano un punto di riferimento dal quale il giudice del divorzio non può prescindere, ma non è tenuto necessariamente a confermarle. Il giudice infatti dovrà valutare la situazione presente in quel momento e decidere tenendo conto dei seguenti principi:

1 – nei procedimenti di diritto di famiglia il tribunale decide “rebus sic stantibus”.

Il giudice, cioè, decide tenendo conto della situazione in essere in quel momento.

Tra separazione e divorzio passa un po’ di tempo e redditi, condizione lavorativa e abitativa dei coniugi possono essere nel frattempo cambiati. Il giudice del divorzio deve valutare la situazione attuale e sulla base di quella può confermare o modificare le regole economiche definite nella separazione.

Se non è cambiato nulla, il giudice tendenzialmente confermerà l’assegno stabilito nella separazione.

Se invece è cambiata la condizione di entrambi o di uno solo dei due, è probabile che regole verranno riviste.

2 – l’assegno di divorzio è fondato su parametri diversi da quelli dell’assegno di mantenimento del coniuge nella separazione

Più esattamente, l’assegno di divorzio è finalizzato ad assicurare i mezzi di sostentamento al coniuge meno abbiente, a riequilibrare le condizioni economiche dei coniugi e a compensare economicamente il coniuge che ha sacrificato le sue aspirazioni lavorative per dedicarsi alla famiglia. L’assegno di mantenimento è invece finalizzato a consentire al coniuge di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Se per ottenere l’assegno di mantenimento nella separazione è sufficiente dimostrare un dislivello tra i redditi dei coniugi, la prova dei presupposti per l’assegno divorzile è un po’ più complicata. Non basta il dislivello tra i redditi dei coniugi, ma serve dimostrare che questo dislivello è stato causato dalle scelte fatte assieme dai coniugi durante il matrimonio e che uno dei due si è sacrificato per consentire all’altro di migliorare la propria condizione professionale ed economica.

3 – il nostro ordinamento vieta gli accordi tesi a regolare anticipatamente l’assetto del futuro divorzio

Si tratta dei “famosi” accordi prematrimoniali, vale a dire gli accordi con cui già prima del matrimonio si regola l’assetto della separazione o del divorzio, stabilendo, ad esempio, l’ammontare dell’assegno per il coniuge meno ricco, a chi andrà la casa, come verranno ripartiti i beni comuni, ecc. Consentiti da alcuni ordinamenti esteri, gli accordi prematrimoniali sono banditi in Italia.

Afferma la Cassazione: gli accordi con cui i coniugi regolano prima o durante il matrimonio o in sede di separazione le condizioni economiche del divorzio sono nulli, cioè del tutto invalidi e inefficaci.

La ragione di questa rigida posizione? Tutelare il coniuge più debole economicamente, cioè quello più esposto al rischio di trovarsi costretto a rinunciare all’assegno pur di ottenere in breve tempo il divorzio.

Attenzione dunque

Stabilire nella separazione l’assetto economico del futuro divorzio non dà alcuna certezza e non garantisce che tale assetto verrà effettivamente confermato al momento del divorzio. Basta che uno dei due coniugi cambi idea che tutto verrà messo in discussione.

E che non vi siano certezze è confermato anche dal caso, citato sopra, dell’assegno vita natural durante per la moglie.

L’assegno vita natural durante

La vicenda è questa:  nella separazione consensuale marito e moglie avevano diviso anche il patrimonio comune e si erano accordati nel senso che  il marito avrebbe versato alla moglie un assegno mensile per tutta la vita della medesima.

Arrivati al momento del divorzio, il marito cambia idea e sostiene di non doverle più nulla. Si va in causa.

Il tribunale conferma l’assegno per la moglie. Il marito impugna la decisione e la corte d’appello gli dà ragione: l’assegno non è dovuto, perchè nel frattempo le cose sono cambiate e l’accordo di separazione non può vincolare il giudice del divorzio.

La moglie ricorre in Cassazione e la Cassazione ribadisce il principio generale per cui gli accordi preventivi sul divorzio sono nulli, e dunque non possono vincolare automaticamente il giudice del divorzio, ma boccia comunque la decisione della corte d’appello. La Cassazione evidenzia, infatti, come nella particolare vicenda l’assegno per la moglie è conseguente anche alla divisione del patrimonio comune. Pertanto rinvia la causa alla Corte d’Appello per una rivalutazione del caso.

Si tratta, in effetti, di un caso molto particolare, nel quale l’assegno fissato nella separazione non  ha solo la funzione di assegno di mantenimento e futuro assegno di divorzio, ma rappresenta una sorta di rendita vitalizia.

La soluzione pertanto potrebbe essere anche di conferma dell’assegno, se l’assegno verrà qualificato come costituzione di una rendita (e non come assegno per il coniuge).

La decisione della Cassazione è contenuta nell’ordinanza n. 11012 del 26 aprile scorso. Vedremo cosa decideranno i giudici del rinvio.

 

Il giudice tutelare e la funzione di vigilanza attiva

Si è molto discusso in dottrina della funzione di vigilanza attiva che il Giudice Tutelare è chiamato a svolgere sull’applicazione dei provvedimenti relativi ai figli minori, e più in particolare sull’attuazione delle regole fissate nei provvedimenti di separazione e di divorzio e nei provvedimenti relativi all’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio e relative alle modalità di affidamento e ai tempi di permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori.

Il potere di vigilanza

La norma di riferimento è l’articolo 337 del Codice civile, che stabilisce che il Giudice Tutelare ha il compito di vigilare sui provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale sui minori. La formulazione della norma è molto ampia, tanto che in un primo momento la giurisprudenza aveva ritenuto che il potere di vigilanza del Giudice Tutelare trovasse applicazione soltanto con riferimento ai provvedimenti con cui veniva tolta o ridotta la responsabilità genitoriale, vale a dire nei provvedimenti di decadenza e sospensione della responsabilità (o potestà, come si chiamava un tempo) genitoriale.

Più di recente, però, sono state emanate diverse sentenze che hanno riconosciuto che il giudice tutelare può vigilare in maniera attiva sull’attuazione dei provvedimenti di separazione e divorzio e su quelli relativi ai figli non matrimoniali, indipendentemente dal fatto che vi siano in essi misure limitative o ablative della responsabilità genitoriale.

In altre parole, è stato attribuito al Giudice Tutelare il compito di intervenire per far sì che i provvedimenti relativi ai rapporti genitori – figli trovino piena attuazione.

Un intervento concreto  e veloce

E così, ad esempio, se un genitore ostacola il rapporto tra i figli e l’altro genitore, si oppone agli incontri, accampa scuse, non consente all’altro di incontrare i bambini, il Giudice Tutelare può agire concretamente per fare in modo che i provvedimenti vengano attuati.

Il Giudice Tutelare può intervenire inoltre adottando misure volte a ripristinare la frequentazione tra i figli e uno dei genitori, se interrotta, o facilitare la gestione dei tempi di permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori quando vi siano delle problematiche tra i genitori, magari dovute al fatto che le regole fissate nel provvedimento della separazione o del divorzio sono vaghe.

Vantaggi  e limiti

Il ricorso al Giudice tutelare rappresenta uno strumento particolarmente vantaggioso, in quanto il procedimento è snello e veloce e per questa ragione consente un intervento rapido ed efficace a tutela dei minori.
Il limite dell’intervento del Giudice Tutelare è che non può cambiare le regole già fissate, ma solo specificarle o agire per la loro attuazione.
Pertanto, quando le regole non sono più attuali perché è cambiata la situazione di fatto (questo può accadere, ad esempio, quando un genitore cambia casa e va a vivere lontano, rendendo non più applicabili le regole sulle visite ai figli), è necessario attivare altri strumenti.

Separazione e divorzio in undici domande

1. Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Separazione personale e divorzio sono due istituti giuridici diversi. La separazione è un passaggio necessario per poter chiedere il divorzio.

Con la separazione si allenta il vincolo del matrimonio, in particolare vengono meno alcuni doveri tipici del matrimonio, in particolare il dovere di convivenza e il dovere di fedeltà. Altri doveri coniugali si allentano: il dovere di assistenza materiale, ad esempio, rimane vivo nel caso ci sia una differenza tra le condizioni economiche dei coniugi.

Con la separazione i coniugi vengono autorizzati a vivere separati e possono smettere di vivere sotto lo stesso tetto.

Se i coniugi sono in regime di comunione legale, la separazione fa cessare la comunione legale.

La separazione però non fa venir meno il matrimonio: due persone separate restano comunque sposate, e pertanto non possono sposarsi in seconde nozze e sono l’una erede dell’altra, allo stesso modo dei coniugi non separati.

Il vincolo matrimoniale viene meno soltanto con il divorzio: il divorzio scioglie il matrimonio, consente ai coniugi di riacquistare lo stato civile libero, perciò di potersi risposare, e fa venir meno i diritti ereditari reciproci.

 

2. Quando posso chiedere la separazione?

Si può chiedere la separazione quando la crisi coniugale è irreversibile e si ritiene di non poter proseguire la convivenza matrimoniale. Si tratta di una scelta molto personale e soggettiva.

 

3. Quando posso chiedere il divorzio?

Per chiedere il divorzio è necessario che siano passati almeno sei mesi dalla separazione, se consensuale.

Se la separazione è stata giudiziale, deve passare almeno un anno dalla prima udienza. Si può chiedere il divorzio anche se la causa di separazione è ancora pendente, ma è necessario che sia stata emessa una sentenza non definitiva di separazione.

4. Che differenza c’è tra separazione consensuale e separazione giudiziale?

Separazione consensuale e giudiziale sono solo le due modalità per arrivare alla separazione legale.

La separazione consensuale è possibile quando i coniugi raggiungono un accordo sulle regole della loro separazione e stabiliscono assieme l’assetto della loro vita da separati, decidendo, ad esempio, chi resterà nella casa familiare, con chi staranno i figli, in che modo provvedere al mantenimento dei figli, ecc.

La separazione consensuale richiede la capacità dei coniugi di confrontarsi e trovare assieme una soluzione condivisa.

Una volta trovato, l’accordo dev’essere formalizzato mediante un provvedimento del tribunale ovvero, senza passare in tribunale, mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un vero e proprio contratto, sottoscritto alla presenza degli avvocati, che regolamenta la separazione.

La separazione giudiziale, invece, è una vera e propria causa davanti al tribunale, al quale si ricorre quando non è possibile trovare un accordo consensuale.

5. Che differenza c’è tra divorzio consensuale e giudiziale?

Anche il divorzio, come la separazione, può seguire una procedura consensuale o giudiziale.

Il divorzio consensuale richiede l’accordo dei coniugi sulle condizioni del divorzio.

L’accordo può essere formalizzato mediante il ricorso al tribunale: il tribunale, sentiti i coniugi in un’unica udienza, decide in camera di consiglio ed emette la sentenza di divorzio. Una volta che la sentenza è diventata definitiva, il divorzio è efficace anche ai fini dello stato civile. Da quel momento è possibile passare a nuove nozze.

Come la separazione, anche il divorzio consensuale si può fare mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un contratto firmato davanti agli avvocati. La procedura di negoziazione assistita non richiede la comparizione dei coniugi in tribunale, ma ci sono una serie di adempimenti che svolgono gli avvocati. Con la negoziazione assistita il divorzio è efficace dalla data della firma dell’accordo.

Quando non è possibile trovare un accordo sulle condizioni del divorzio, è necessario rivolgersi al tribunale con un ricorso per divorzio giudiziale, dando così avvio a una vera e propria causa.

 

6. Che cosa viene deciso nella separazione?

Gli aspetti che vengono decisi nella separazione sono vari.

Se ci sono figli, nella separazione dev’essere deciso il loro affidamento e la loro collocazione abitativa, cioè con quale genitore manterranno la residenza anagrafica, i tempi di permanenza presso l’altro genitore, le modalità di contribuzione al loro mantenimento.

Inoltre, si decidono le sorti della casa familiare: quando ci sono figli, la casa viene assegnata al coniuge che ha con sé i figli in via prevalente. Assegnazione vuol dire che il coniuge ha diritto di rimanere a vivere nella casa coniugale, anche se non è di sua proprietà, fino a che i figli non raggiungono l’indipendenza economica.
In assenza di figli, si dovrà stabilire chi resterà a vivere nella casa.

Nella separazione, inoltre, si deve regolare il contributo al mantenimento del coniuge, se ve ne sono i presupposti. In generale, l’assegno per il coniuge viene stabilito quando c’è una differenza significativa tra i redditi dei coniugi.

Nella separazione giudiziale, può essere discussa anche la domanda di addebito della separazione, cioè l’accertamento che le ragioni della crisi familiare sono state determinate dal comportamento di uno dei due coniugi. Questo accade, ad esempio, nel caso in cui la separazione sia stata causata da maltrattamenti o dall’adulterio.

 

7. Che cosa viene deciso nel divorzio?

Nel divorzio viene disposto lo scioglimento del matrimonio e per il resto vengono esaminati gli stessi temi che abbiamo visto sopra per la separazione, tranne la domanda di addebito.

L’addebito, infatti,  può essere chiesto solo nella separazione giudiziale. Nel divorzio non si torna più a discutere delle cause che hanno portato alla separazione, a meno che le cause non siano ritenute rilevanti ai fini della domanda di assegno divorzile.

Anche sotto il profilo economico ci sono alcune differenze tra l’assegno di mantenimento del coniuge che viene stabilito nella separazione e l’assegno di divorzio.  L’assegno divorzile, che è l’assegno che spetta al coniuge meno abbiente, si basa infatti su presupposti diversi dall’assegno di mantenimento del coniuge della separazione.

 

8. Le regole della separazione o del divorzio possono essere cambiate?

Le regole fissate nella separazione e nel divorzio non restano fisse nel tempo e possono essere cambiate ogni volta che intervengono fatti nuovi rilevanti che vanno ad incidere sull’assetto definito nella separazione o nel divorzio.

Si considerano rilevanti tutti gli eventi che riguardano la condizione lavorativa (ad esempio, la perdita del lavoro, il pensionamento, il passaggio ad un impiego più redditizio, ecc.) o la salute (ad esempio, l’invalidità sopravvenuta) o le nuove situazioni familiari dei coniugi (ad es. la convivenza stabile con un nuovo compagno, la nascita di un figlio) o ancora la crescita dei figli (ad es. il trasferimento all’estero, il raggiungimento dell’indipendenza economica, ecc.).

La modifica delle condizioni di separazione e divorzio non può essere concordata privatamente, ma richiede un atto formale, analogo a quello che si vuole modificare. Sarà dunque necessario un nuovo accordo ratificato dal tribunale o dagli avvocati nell’ambito della procedura di negoziazione assistita.

In mancanza di accordo, si può avviare un apposito procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Si tratta di un procedimento che ha un iter veloce e una procedura semplificata.

 

9. Cosa devo fare se mio marito/mia moglie non si vuole separare?

Nel nostro ordinamento la separazione è un diritto, pertanto è sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi.
Se l’altro non si vuole separare, si può comunque ottenere la separazione avviando il procedimento di separazione giudiziale.

10. Esiste la separazione per colpa?

Non c’è nel nostro ordinamento una separazione per colpa, ma è possibile chiedere nella separazione giudiziale che il tribunale accerti che la fine del matrimonio è stata causata dal comportamento di uno solo dei coniugi. Si tratta della domanda di addebito della separazione.

Serve a dimostrare che la causa della crisi coniugale è stata determinata dal comportamento di uno dei due coniugi che ha violato i doveri coniugali stabiliti dalla legge. I casi più frequenti riguardano l’adulterio (che integra violazione del dovere di fedeltà) e l’abbandono del tetto coniugale (il coniuge che va via di casa senza giusta causa viola il dovere di coabitazione).

L’addebito della separazione ha l’effetto di far venir meno il diritto all’assegno di mantenimento, se presente, e di far venir meno i diritti ereditari del coniuge cui la separazione viene addebitata. Inoltre, comporta la condanna al pagamento delle spese legali.

 

11. Quanto dura una causa di separazione o di divorzio giudiziale?

La durata è quella di un procedimento giudiziale, in genere ci vogliono almeno due, tre anni per arrivare alla decisione conclusiva. Alle volte anche di più, dipende anche dalla tipologia degli accertamenti istruttori che vengono chiesti. Ad esempio, se viene richiesta una perizia sulle condizioni economiche dei coniugi, si devono considerare anche i tempi tecnici necessari  per l’esecuzione dell’indagine.

In ogni caso, sia nella separazione che nel divorzio giudiziale, il tribunale già dalla prima udienza stabilisce regole provvisorie che disciplinano i rapporti tra i coniugi e con i figli. Queste regole possono sempre essere modificate nel corso del procedimento su richiesta dei coniugi e comunque possono essere modificate dalla sentenza che chiude il procedimento.

 

 

Assegno di divorzio: il divario tra i redditi degli ex coniugi non sempre conta

La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del luglio 2018 ha chiarito che l’assegno divorzile assolve una funzione assistenziale e perequativo-compensativa. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo.

Secondo il nuovo orientamento interpretativo, ha diritto al riconoscimento di un assegno in sede di divorzio il coniuge che si trovi in una condizione economica inferiore rispetto all’altro a causa delle scelte fatte in funzione della vita matrimoniale, consistite – ad esempio – nel rinunciare alle proprie aspirazioni professionali per dedicarsi alla famiglia ed alla crescita dei figli.

Il primo criterio che il giudice del divorzio è chiamato ad accertare per la previsione dell’assegno divorzile è che vi sia un divario, uno squilibrio economico- patrimoniale tra le condizioni dei coniugi. Pertanto, se tale divario non è presente l’assegno di divorzio non può essere riconosciuto.

Secondo la Cassazione, lo squilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi è un presupposto di fatto il cui accertamento di fatto è richiesto dalla legge per poter valutare il diritto all’assegno di divorzio.
Se la condizione economico patrimoniale dei coniugi è paritaria e non risulta influenzata dalle decisione assunte durante il matrimonio sulla conduzione della vita familiare, non vi è il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio. Allo stesso modo, condizioni di agiatezza particolarmente elevate di uno dei coniugi che non sono frutto delle scelte fatte durante il matrimonio non permettono il riconoscimento dell’assegno di divorzio.

Ma vi sono anche alcuni casi in cui, pur sussistendo uno squilibrio tra le condizioni economiche dei coniugi l’assegno di divorzio non può essere riconosciuto. Ciò accade nelle seguenti ipotesi:

– quando i coniugi hanno già definito al momento della separazione personale i reciproci rapporti economico-patrimoniali, tenendo anche conto del conseguenze negative della fine del matrimonio sulla sfera economica del coniuge meno abbiente, compensando così il sacrificio da questi fatto durante la vita coniugale (ad esempio, se c’è stato un trasferimento di somme di danaro o di beni immobili dall’uno all’altro in sede di separazione consensuale);

– quando il matrimonio ha avuto breve durata;

– quando l’età del coniuge che richiede l’assegno è ancora adeguata al suo ingresso nel mondo del lavoro;

– quando il coniuge che chiede l’assegno non ha svolto un ruolo determinante nella conduzione della vita familiare.

Se i coniugi hanno convissuto per più di tre anni, il matrimonio non è annullabile

Se la convivenza matrimoniale è durata più di tre anni, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non può essere riconosciuta nel nostro ordinamento, poiché contraria all’ordine pubblico.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30900 del 26 novembre 2019.

La vicenda

Il caso esaminato era quello di un uomo che, ottenuta la sentenza del Tribunale ecclesiastico di annullamento del matrimonio, ne aveva chiesto la delibazione, cioè il riconoscimento in Italia. La Corte d’Appello (giudice competente per il riconoscimento delle sentenze straniere, quali si considerano le sentenze di diritto canonico) aveva rigettato la richiesta dell’uomo, ritenendo che la sentenza canonica non fosse riconoscibile in quanto i coniugi avevano vissuto come marito e moglie per oltre tre anni. La moglie si era opposta al riconoscimento della sentenza canonica, sostenendo, appunto, che la convivenza come marito e moglie,  durata oltre tre anni, aveva di fatto reso effettivo il rapporto di matrimonio.

Impugnata la decisione in Cassazione, il marito ha visto confermata la sentenza della Corte d’Appello.

 

La convivenza ultratriennale è norma di ordine pubblico interno

Secondo la Cassazione, infatti, la circostanza che la convivenza coniugale sia durata più di tre anni dalla data delle nozze è ostativa al riconoscimento dell’efficacia in Italia della sentenza canonica di annullamento del vincolo: questo poiché per il nostro ordinamento la convivenza di due persone come coniugi è elemento essenziale del rapporto matrimoniale e, se si protrae per oltre tre anni, di fatto elide ogni possibile vizio dell’atto iniziale di celebrazione delle nozze.

In altre parole, la convivenza per oltre tre anni impedisce di contestare la validità dell’atto matrimoniale. Si tratta, secondo la Cassazione, di una norma di ordine pubblico interno, inderogabile e non intaccabile da provvedimenti di altri ordinamenti.

Per ottenere il riconoscimento della sentenza canonica di annullamento del matrimonio, il marito avrebbe dovuto dimostrare che quella con la moglie non era convivenza matrimoniale, ma semplice coabitazione, cioè che lui e la moglie vivevano sì sotto lo stesso tetto, ma da separati in casa, ognuno per conto proprio. Circostanze di per sé estremamente difficili da dimostrare e che, nel caso deciso dalla Cassazione, non erano state dimostrate, anche perché la moglie si era opposta al riconoscimento della sentenza canonica di annullamento del matrimonio proprio sostenendo di aver vissuto assieme al marito come sua moglie.

 

Fonte: Ordinanza Cassazione Civile n. 30900 del 26 novembre 2019