Assegnazione della casa familiare: i figli al centro della decisione

Con la recente sentenza del 28 giugno 2024 la Corte d’appello di Milano ha ribadito ancora una volta come la decisione relativa all’assegnazione della casa familiare debba essere guidata esclusivamente dagli interessi dei figli.

Il caso deciso

Il caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano nella sentenza in esame riguardava un minore collocato presso il padre nella casa familiare di proprietà della madre, decisione impugnata dalla madre che richiedeva l’assegnazione a suo favore dell’abitazione, sostenendo che il figlio dovesse avere collocazione abitativa prevalente con lei.

La Corte d’appello ha rigettato la richiesta materna e confermato il collocamento del figlio presso il padre, evidenziando come il minore avesse stabilizzato vita e abitudini nella casa coniugale, dove viveva oramai da due anni assieme al padre e alla nuova compagna di lui. La madre peraltro risultava essersi trasferita con la figlia maggiorenne in altra regione, dove aveva comprato casa assieme al nuovo compagno.

Gli interessi dei figli

La Corte ha ribadito un principio cardine: l’assegnazione della casa familiare deve mirare principalmente alla conservazione, in favore dei figli, del domicilio dove si sono radicati abitudini ed affetti del minore. Questo approccio è in linea con quanto sancito dagli articoli 337 ter e 337 sexies del codice civile, che pongono l’accento sulla necessità di garantire un ambiente stabile e sereno per lo sviluppo del minore.

L’incidenza economica dell’assegnazione della casa familiare

Nella decisione, i giudici della Corte d’appello di Milano hanno tenuto conto non solo della stabilità abitativa del minore ma anche delle condizioni personali ed economiche dei genitori. È stata evidenziata la nuova situazione abitativa e relazionale della madre, che aveva trasferito il centro dei propri interessi in un’altra regione, e la sua parziale emancipazione economica, elementi che hanno portato a una revisione delle prescrizioni economiche disposte dal tribunale di Milano nella sentenza appellata.

Tenendo conto della valenza economica del provvedimento di assegnazione della casa familiare, la Corte ha revocato l’assegno di mantenimento del figlio a carico della madre, considerando il godimento della casa familiare (immobile di proprietà esclusiva della madre) come un adeguato contributo economico al sostentamento del figlio. Inoltre, è stato confermato l’obbligo a carico del padre di mantenimento della figlia maggiorenne convivente con la madre e solo parzialmente autosufficiente. Al riguardo, i giudici hanno anche precisato che anche se la figlia è maggiorenne l’assegno per il suo mantenimento va versato alla madre, in quanto genitore convivente.

Conclusioni

Questa sentenza della Corte d’appello di Milano riafferma l’importanza della valutazione degli interessi della prole nelle decisioni riguardanti l’assegnazione della casa familiare. Le condizioni personali ed economiche dei genitori devono sempre essere valutate alla luce del benessere e dello sviluppo equilibrato dei minori coinvolti. La stabilità abitativa, le abitudini radicate e l’ambiente familiare costituiscono elementi essenziali per il sereno sviluppo del minore e ogni decisione deve essere orientata a preservare tali aspetti.

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Fonte: sentenza Corte d’Appello di Milano 28 giugno 2024

Assegnazione della casa familiare nella separazione: criteri, diritti e doveri

L’assegnazione della casa familiare è una misura prevista dal nostro ordinamento per tutelare il benessere dei figli minori e garantire loro stabilità e continuità abitativa anche dopo la separazione o il divorzio dei genitori. Questo provvedimento ha come obiettivo principale la protezione degli interessi della prole, permettendo loro di continuare a vivere nell’ambiente domestico che conoscono, riducendo al minimo i traumi e i disagi derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare.

La normativa di riferimento

La regolamentazione dell’assegnazione della casa familiare è disciplinata principalmente dagli articoli 337 ter e 337 sexies del codice civile. Questi articoli stabiliscono i criteri e le modalità con cui viene deciso l’assegnazione dell’abitazione familiare, ponendo particolare attenzione agli interessi dei figli minori ed evidenziando anche i risvolti economici dell’assegnazione.

Quali sono i criteri di assegnazione?

 

  1. Interessi dei figli: la casa familiare viene assegnata al genitore con cui i figli minori convivono stabilmente. L’assegnazione mira a preservare l’ambiente domestico, le abitudini e le relazioni affettive dei minori, considerati fondamentali per il loro sviluppo equilibrato e sereno. L’assegnazione è prevista anche in presenza di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti e anche in caso di figli maggiorenni  con gravi disabilità.

 

  1. Stabilità abitativa: viene valutato il tempo e la stabilità con cui il figlio ha vissuto nella casa familiare. La continuità abitativa è considerata un elemento cruciale per evitare ulteriori traumi ai bambini.

 

  1. Condizioni economiche: anche le condizioni economiche dei genitori vengono prese in considerazione.  Il tribunale valuta l’impatto economico dell’assegnazione sia sul genitore che mantiene il possesso della casa, sia su quello che ne perde la disponibilità.

 

  1. Diritti di proprietà: Se la casa familiare è di proprietà esclusiva di uno dei genitori, questo elemento viene considerato nella decisione, ma non prevale sugli interessi della prole. L’assegnazione può comunque essere disposta a favore dell’altro genitore se ciò risponde meglio alle esigenze dei figli.

Quanto dura l’assegnazione?

L’assegnazione della casa familiare ha una durata che è strettamente legata alle esigenze dei figli . Il diritto di abitazione cessa quando i figli diventano economicamente autosufficienti. In alcuni casi, l’assegnazione può essere rivista se cambiano le condizioni personali o economiche dei genitori o dei figli.

Quali diritti e doveri discendono dall’assegnazione?

  1. Usufrutto e diritto d’abitazione: Il genitore assegnatario non acquisisce la proprietà dell’immobile, né i diritti reali di usufrutto o di abitazione, acquista più semplicemente un diritto personale di godimento dell’immobile limitato al periodo necessario per il benessere dei figli.
  2. Manutenzione e spese: Le spese di manutenzione ordinaria dell’immobile restano a carico del genitore assegnatario, mentre quelle straordinarie spettano al proprietario dell’immobile.

Nel prossimo articolo esamineremo una recente sentenza della Corte d’appello di Milano che affronta proprio il tema dell’assegnazione della casa familiare.

 

Assegnazione della casa coniugale e figli maggiorenni

La Corte di Cassazione con ordinanza del 20 novembre 2023 n. 32151 è tornata sulla questione della revoca dell’assegnazione della casa familiare in seguito al raggiungimento della maggiore età da parte dei figli e al conseguimento dell’autosufficienza economica o alla cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario.

Nel caso specifico, la ricorrente aveva presentato ricorso per cassazione contro una sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria che aveva respinto la sua domanda di assegnazione della casa familiare e di contributo al mantenimento del figlio maggiorenne.

La questione principale sollevata dalla ricorrente riguardava la revoca dell’assegnazione della casa familiare. La Corte di merito aveva respinto la richiesta, considerando l’autosufficienza economica del figlio maggiorenne, il quale lavorava per una società di ristorazione sui treni ad alta velocità. La madre sosteneva che, nonostante l’autosufficienza economica, la casa familiare fosse comunque il luogo stabile di convivenza con il figlio, che vi ritornava quotidianamente dopo il lavoro.

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando che la revoca dell’assegnazione della casa familiare si basa sull’accertamento del venir meno dell’interesse dei figli, in questo caso del figlio maggiorenne, alla conservazione dell’habitat domestico a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell’autosufficienza economica o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario.

La Corte ha sottolineato che, nel caso in esame, l’autosufficienza economica del figlio era incontestata, giustificando la bontà della decisione della Corte d’appello

Fonte: Cassazione ordinanza n. 32151 del 20.11.2023.

assegnazione casa familiare

Fino a quando dura l’assegnazione della casa familiare?

L’assegnazione della casa familiare è un provvedimento finalizzato a proteggere i figli minorenni ed a consentire loro di continuare a vivere, anche dopo la separazione dei genitori, nel medesimo habitat, nell’ambiente domestico che loro identificano come “casa”, dove hanno i loro oggetti e le loro abitudini.
L’assegnazione prescinde dal diritto di proprietà e non lo intacca, ma va a costituire un diritto personale di godimento sulla casa familiare in favore del genitore convivente con i figli minorenni, che ha, pertanto, il diritto di abitare l’immobile. In altre parole, il proprietario della casa rimane tale, ma la disponibilità dell’immobile viene vincolata all’interesse dei figli ed al loro di diritto di crescere in modo equilibrato e sereno.

L’assegnazione della casa familiare corrisponde, peraltro, ad una modalità diretta di mantenimento dei figli e quando è di proprietà di uno dei genitori o di entrambi, va considerata anche ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento, in quanto comporta un risparmio di spese abitative per il genitore assegnatario.

Se si tratta di immobile in locazione, l’assegnatario subentra in automatico nel contratto di locazione in essere, assumendo gli obblighi del conduttore.

E se i figli sono maggiorenni?

L’assegnazione della casa familiare va disposta anche quando i figli sono maggiorenni non economicamente autosufficienti.

In presenza di figli maggiorenni, però, la funzione dell’assegnazione cambia: il provvedimento di assegnazione non protegge più il diritto del figlio a crescere in modo equilibrato e sereno, dato che il raggiungimento della maggiore età corrisponde all’ingresso nell’età adulta, ma tutela le esigenze concrete di vita del figlio che non abbia ancora completato il proprio percorso di autonomia economico-patrimoniale.

Dunque, in presenza di figli maggiorenni il provvedimento di assegnazione della casa familiare ad uno dei genitori è possibile soltanto se il figlio
non è indipendente economicamente e
convive con uno dei genitori (cui, appunto, verrà assegnata la casa familiare).

Quando viene meno l’assegnazione?

Il provvedimento di assegnazione della casa familiare viene meno nei seguenti casi:

– se l’assegnatario vi rinuncia;

– quando il figlio diventa economicamente autonomo (se sono più di uno, quando l’ultimo dei figli diventa indipendente);

– quando il figlio, anche se non indipendente dal punto di vista economico, si trasferisce a vivere stabilmente altrove. Nel caso in cui il trasferimento sia dovuto a ragioni di studio (ad esempio, il figlio che va a studiare in altra città), le situazioni vanno valutate caso per caso, ma in via prevalente si ritiene che l’assegnazione debba rimanere in vita fino a che non si interrompe in maniera stabile il rapporto con l’abitazione.

E se non ci sono figli? La casa coniugale può essere assegnata ad uno dei coniugi?

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa familiare può essere disposta soltanto in presenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.

Pertanto, è escluso che l’assegnazione della casa coniugale possa essere applicata alle coppie senza figli, anche nel caso in cui ci sia notevole divario tra le condizioni economiche dei coniugi e l’uso della casa possa assumere una funzione riequilibratice del divario nell’assetto economico dei coniugi.

Certamente, in sede di separazione personale i coniugi che non hanno figli sono liberi di regolare l’utilizzo della casa, prevedendo che uno dei due vi rimanga a vivere a titolo gratuito, ma è necessario che siano entrambi d’accordo (separazione consensuale). Se non sono d’accordo ed avviano una separazione giudiziale, il Tribunale non potrà disporre l’assegnazione della casa coniugale in favore di uno dei due, in quanto, per legge, l’assegnazione è prevista soltanto a tutela dei figli.

Domanda "La casa coniugale in cui risiedo è in comodato d’uso. In caso di separazione, sarà riassegnata ai proprietari?"

Casa in comodato: dopo la separazione, sarà riassegnata ai proprietari?

La risposta dell’Avvocato Barbara D’Angelo

La Cassazione in diverse pronunce ha chiarito che quando la casa familiare è costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile a rientrare nella disponibilità del bene.

L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Se il proprietario vuole rientrarne nella disponibilità, dovrà avviare un autonomo giudizio e potrà ottenere il rilascio dell’immobile esclusivamente nel caso in cui dimostri la sussistenza di un bisogno urgente e imprevedibile ai sensi dell’art. 1809, 2° comma, del Codice civile.

Assegnazione della casa familiare e genitori in conflitto

Nella decisione sull’assegnazione della casa coniugale nella separazione, il giudice deve tener conto esclusivamente dell’interesse dei figli. Pertanto, non può disporre la co-assegnazione dell’immobile, previa suddivisone in due distinte unità abitative, qualora il conflitto tra i genitori sia particolarmente acceso e la vicinanza abitativa dei medesimi possa recare turbativa alla crescita equilibrata e serena dei figli minori.

La casa familiare può essere assegnata soltanto in presenza di figli

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, e non a compensare un eventuale divario tra le posizioni economiche dei coniugi.

Il provvedimento di assegnazione ha lo scopo di proteggere i figli, garantendo loro di conservare una continuità, quando meno sotto il profilo abitativo e delle abitudini, di fronte alla disgregazione del nucleo familiare.

L’assegnazione, dunque, va effettuata in favore del coniuge convivente con i figli. In mancanza di figli minori o di figli maggiorenni non autonomi, il giudice non può assegnare la casa coniugale: l’immobile resterà al coniuge che ne è proprietario; se l’immobile è in comproprietà ai due coniugi, si applicheranno le ordinarie regole della comunione.

Se i genitori sono in conflitto, non si può coassegnare la casa coniugale

In una vicenda oggetto di un recente provvedimento della Corte di Cassazione, il marito in sede di separazione aveva chiesto l’assegnazione di una parte dell’ex casa coniugale, sostenendo che i figli minori avrebbero ottenuto un grande beneficio dalla vicinanza con il padre, al quale erano uniti da un forte legame affettivo, e che gli interventi di divisione della casa erano facili da realizzare e non eccessivamente costosi.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, motivando tale decisione con la sussistenza di un’elevata conflittualità tra i coniugi: per i giudici la litigiosità dei coniugi rendeva la coassegnazione contraria all’interesse dei figli, specie in mancanza di un accordo tra le parti circa la facile divisibilità dei vani e considerato che la moglie, nel frattempo, aveva intrapreso una convivenza con un altro uomo.

La sentenza, confermata in appello, non è stata modificata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto inammissibile per ragioni tecniche il ricorso presentato dal marito.

 

Fonte: Cass. Civ. ordinanza 10 novembre 2017, n. 26709.

Abbandono del tetto coniugale e addebito della separazione

Se il coniuge lascia la casa coniugale rischia l’addebito della separazione, a meno che non dimostri che l’uscita di casa è dovuta a giusta causa.

La convivenza è, infatti, un obbligo per le persone sposate, sancito dall’art. 143 del Codice civile. La violazione di tale obbligo, così come quella degli altri obblighi coniugali (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia), costituisce una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e, in sede di separazione personale, può essere contestata dall’altro coniuge e fondare l’addebito della separazione.

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito che, quando la richiesta di addebito della separazione è motivata dall’abbandono del tetto coniugale, il coniuge uscito di casa può evitare l’addebito della separazione se prova la sussistenza di una giusta causa.

La “giusta causa” può consistere in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto.

Cosa significa “addebito della separazione”

L’addebito consiste, in estrema sintesi, nell’attribuzione della responsabilità della separazione al coniuge che ha violato i doveri matrimoniali: si sostiene, cioè, che la separazione è stata causata dal comportamento di uno dei due.

Conseguenze dell’addebito sono, in estrema sintesi, tre:

1 – il coniuge cui viene addebitata la separazione perde definitivamente il diritto all’assegno di mantenimento (se ve ne sono i presupposti)

2 – sotto il profilo successorio, la pronuncia di addebito anticipa gli effetti del divorzio: il coniuge cui viene addebitata la separazione non è più erede dell’altro (mentre l’altro mantiene i diritti successori)

3 – generalmente, poi, il coniuge cui viene addebitata la separazione viene condannato al rimborso delle spese legali della separazione all’altro.

La pronuncia dell’addebito può essere chiesta soltanto in sede di separazione personale (non nel divorzio, né nella modifica delle condizioni di separazione) e, ovviamente, esclusivamente nel procedimento di separazione giudiziale (non nella separazione consensuale).

Come si ottiene l’addebito della separazione

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata sul punto: per la pronuncia di addebito nella separazione, è necessaria non solo l’esistenza di una violazione degli obblighi tra coniugi nascenti dal matrimonio, ai sensi dell’art. 143 c.c., ma pure quella di uno stretto rapporto di causalità tra tale violazione e l’elemento della intollerabilità della convivenza (si vedano, tra le altre, Cass. n. 9074/2011 e 2059/2012).

Ciò significa che per dimostrare che la separazione è addebitabile all’altro coniuge occorre anzitutto dimostrare che questi ha tenuto comportamenti contrari ai doveri coniugali (ad esempio: ha condotto una relazione extraconiugale, oppure ha cessato di provvedere al mantenimento della famiglia, ecc.).

Ed inoltre, è necessario dimostrare che i comportamenti contrastanti con i doveri coniugali sono stati la causa della separazione, poichè hanno reso intollerabile la prosecuzione della convivenza familiare.

Dimostrare, ad esempio, che il coniuge ha commesso adulterio, e dunque ha violato il dovere di fedeltà coniugale, non è sufficiente; occorre anche dimostrare che l’adulterio è stata la causa della separazione: se le condotte adulterine sono state tollerate dall’altro coniuge ed ugualmente se l’adulterio è stato commesso quando il matrimonio era già in crisi per altre ragioni, la pronuncia di addebito potrebbe essere negata.

Allontanamento dalla casa coniugale e “giusta causa”

Con la recente ordinanza n. 25966 del 2016, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’abbandono del tetto coniugale costituisce elemento da solo sufficiente a rendere impossibile la prosecuzione della convivenza. E dunque il coniuge che intende chiedere l’addebito della separazione è esonerato dal dimostrare che l’uscita di casa è stata la causa della separazione.

Il coniuge che si è allontanato, però, ha la possibilità di evitare l’addebito della separazione, dimostrando che l’allontanamento è dovuto a “giusta causa”, che può consistere, ad esempio, in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto in vista della successiva ufficializzazione della separazione.

Fonte: ordinanza Corte di Cassazione n. 15 dicembre 2016, n. 25966 (est. Dogliotti)

Contro la violenza sulle donne: le misure contro i maltrattamenti in famiglia

Oggi è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un fenomeno in continua, drammatica crescita che non può e non deve lasciare indifferenti noi operatori del diritto.
Le donne, assieme ai bambini ed agli anziani, sono le principali vittime delle violenze perpetrate all’interno della famiglia. Famiglia che non sempre è il porto sicuro degli affetti, ma alle volte è luogo di violenza, abusi e maltrattamenti.

Per contrastare il fenomeno della violenza domestica nel 2001 è stata varata la legge 154, con cui sono state introdotte specifiche misure a tutela delle vittime di abusi in famiglia (artt. 342 bis e ter del Codice Civile).

Un procedimento rapido e senza eccessivi formalismi

Più esattamente, è stato previsto un procedimento speciale, caratterizzato da particolare speditezza, che permette un intervento tempestivo a protezione delle vittime di maltrattamenti.
Presupposto per l’attivazione di questo procedimento è la sussistenza di un rapporto di convivenza (matrimonio o convivenza di fatto) tra la vittima e l’autore degli abusi.
Il procedimento si svolge davanti al giudice civile e si introduce mediante un ricorso nel quale vanno dettagliatamente indicate le condotte abusanti, supportate da adeguata documentazione (denunce penali, referti medici, fotografie, ecc. ) che dimostri la fondatezza dell’iniziativa.

L’ordine di allontanamento e le altre misure di protezione delle vittime

Di fronte alla condotta di un convivente che sia causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà dei familiari (dunque, non solo aggressioni e violenze fisiche, ma anche costrizioni e pressioni psicologiche), il giudice può emettere, in tempi rapidissimi e anche senza previamente consultare l’altra parte, un provvedimento che ordina al convivente violento la cessazione dei comportamenti abusanti e ne dispone l’immediato allontanamento dalla casa comune.

Il giudice può, altresì, vietare l’avvicinamento alla casa comune ed ai luoghi abitualmente frequentati dai familiari (luogo di lavoro, scuola cui sono iscritti i figli, abitazioni delle famiglie d’origine, ecc.).

Ed ancora, il giudice può condannare il convivente a versare un importo mensile per il mantenimento dei familiari che, diversamente, si troverebbero privi di mezzi di sostentamento.

L’efficacia e la durata delle misure

Il provvedimento antiviolenza è immediatamente efficace, e l’autore degli abusi è tenuto a rispettarlo.

Nel provvedimento il giudice stabilisce le modalità con cui devono essere attute le misure di protezione delle vittime di violenza e può disporre anche l’intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.

Trattandosi di una misura straordinaria, concepita per intervenire nell’emergenza e porre immediatamente rimedio ai maltrattamenti interrompendo la convivenza, il legislatore ne ha stabilito un limite di durata, ritenendo che, una volta allontanato da casa l’autore degli abusi, la vittima possa attivarsi per far cessare definitivamente la convivenza con gli altri strumenti previsti dall’ordinamento (ad esempio, con la richiesta di separazione personale).

L’ordine di protezione, dunque, può durare al massimo dodici mesi da quando viene adottato (la durata in concreto viene stabilita dal giudice nel provvedimento, tenendo conto delle circostanze del caso specifico) e può essere rinnovato soltanto se ricorrono particolari condizioni.

Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

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Assegno di mantenimento e pagamento del mutuo

La Cassazione penale è tornata di recente ad affrontare il tema della mancata corresponsione del contributo al mantenimento dei figli da parte del genitore obbligato.
Decidendo in un caso nel quale l’imputato era stato condannato, tra l’altro, ex art. 12 sexies L. 898/70 per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile a favore dei figli minori, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di impugnazione proposto dai difensori,i quali avevano evidenziato come il mancato versamento fosse conseguente ad un pregresso accordo tra i genitori e con il quale l’imputato si impegnava a pagare per intero i ratei del mutuo contratto per l’acquisto di un immobile conferito in un fondo patrimoniale, provvedendo così anche alla quota di competenza dell’ex coniuge.
La Cassazione ha chiarito che l‘obbligo di versare l’assegno di mantenimento è inderogabile ed indisponibile e, come tale, non può essere sostituito con prestazioni di altra natura. Oltretutto, nella vicenda specifica, il pagamento delle rate del mutuo era avvenuto in un periodo precedente a quello in cui era stato omesso il versamento dell’assegno.

Fonte: Cass. pen. sent. n. 10944 del 15.3.2016