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Nuovo partner dopo la separazione: come introdurlo ai figli

Una delle questioni più delicate che si pongono dopo la separazione è quella dell’introduzione nella vita dei figli del nuovo compagno o della nuova compagna.

Spesso, infatti, l’inserimento del nuovo partner nella vita dei figli è un passaggio difficile, vissuto con particolare tensione sia dal genitore che dai figli. E molte volte si verificano resistenze da parte dell’altro genitore che, realmente preoccupato per il benessere dei figlio o mosso da gelosia, pone “veti” alla frequentazione tra il figlio e il nuovo compagno dell’ex.

Sotto il profilo giuridico il principio cardine da tenere sempre in considerazione è il principio di bigenitorialità: i figli hanno diritto di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori, e dunque hanno diritto di partecipare alla vita di entrambi i genitori nella sua completezza.

È dunque normale che, se non vi sono problematiche specifiche, il figlio venga a contatto ed abbia un rapporto di frequentazione con i nuovi compagni dei genitori. Ed è normale che il figlio condivida con il genitore momenti quali la nuova convivenza, il matrimonio ed altri eventi della vita del genitore.

Le clausole che alle volte vengono inserite negli accordi di separazione o di divorzio in cui si prevede l’obbligo per i coniugi di introdurre i nuovi compagni in modo graduale nella vita dei figli, così come quelle che vietano i contatti per un certo periodo di tempo, non costituiscono un vero e proprio obbligo giuridico, ma si sostanziano in un impegno morale che, se violato, non comporta l’applicazione di alcuna sanzione.

In mancanza di prescrizioni di legge, non resta che seguire regole di buon senso e fare appello alla sensibilità dei genitori, chiamati ad avere la massima attenzione nell’introdurre un nuovo compagno nella vita dei figli, per evitare agli stessi figli traumi e possibili sofferenze.

Una regola fondamentale è quella di introdurre il rapporto prima di introdurre la persona, vale a dire iniziare a comunicare ai figli la possibilità che il papà o la mamma siano coinvolti in un nuovo rapporto sentimentale, dando il tempo al bambino di elaborare questa eventualità.

Si dovrà,  inoltre, evitare la sovrapposizione dei ruoli: il bambino dovrà avere sempre chiaro che il nuovo fidanzato della mamma o la fidanzata del papà sono figure distinte rispetto ai genitori “veri” e che i genitori “veri” rimarranno sempre il suo punto di riferimento.

Assegno di divorzio: il tenore di vita non conta più

Nuovi parametri di riferimento per il riconoscimento dell’assegno di divorzio: per stabilire se il coniuge divorziato ha diritto all’assegno post-coniugale non va valutato il tenore di vita del matrimonio, ma soltanto l’autosufficienza economica del coniuge richiedente.

Questo è quanto stabilito dalla recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 11054 depositata il 10 maggio scorso, oggetto, per la sua portata innovativa (e per la notorietà della parti in causa), di una notevole attenzione mediatica.

Con questa sentenza, infatti, i giudici della Cassazione hanno rivoluzionato l’orientamento giurisprudenziale in materia, giungendo a conclusioni nuove, destinate ad incidere sull’assetto economico di molti ex coniugi.

Dal tenore di vita della famiglia…

In precedenza, infatti, si era consolidata l’interpretazione per cui l’assegno di divorzio andava riconosciuto tenendo conto del tenore di vita tenuto dalla famiglia quando era unita. E dunque l’assegno divorzile poteva essere riconosciuto anche in favore dell’ex coniuge che avesse una condizione economica tale da poter essere autosufficiente.
Più esattamente, l’assegno veniva riconosciuto anche se il coniuge richiedente aveva redditi e proprietà, soltanto per il fatto che l’altro coniuge versava in una condizione economica più florida del richiedente.
Questa interpretazione era tesa a tutelare il coniuge più debole, generalmente la moglie, che aveva sacrificato la propria carriera lavorativa e rinunciato ad ambizioni professionali per occuparsi della famiglia, alla cura dei figli e della casa, così permettendo al marito di dedicarsi alla carriera e di garantire alla famiglia un determinato tenore di vita .
Cessato il matrimonio, al coniuge meno abbiente veniva riconosciuto l’assegno, in modo da garantirgli di conservare quel tenore di vita conseguito dall’altro coniuge anche grazie al suo sacrificio.

… all’autoresponsabilità economica

Con la recente sentenza, la Cassazione cambia completamente prospettiva.
Il tenore di vita non va più tenuto in considerazione, ma quello che conta è l’autosufficienza economica.
Con una nuova interpretazione dell’art. 5 della legge 898/1970 sul divorzio, la Cassazione enfatizza la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio, evidenziando che l’assegno va disposto nei casi in cui il coniuge non abbia risorse economiche tali da renderlo indipendente.

Non conta più il tenore di vita del matrimonio: con il divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano personale e patrimoniale, fare riferimento al tenore di vita del matrimonio rappresenta una forzatura, determinando il perdurare tra le parti di un vincolo che di fatto è sciolto.

Il criterio cui i giudici chiamati a decidere dell’assegno di divorzio devono attenersi è l’autoresponsabilità economica, secondo cui ciascuno, indipendentemente da chi abbia sposato e dal tenore di vita della famiglia, deve provvedere a sè stesso autonomamente.

Nessun assegno dunque verrà riconosciuto, dunque, a chi sarà in grado di cavarsela da solo, anche se il tenore di vita condotto con i propri mezzi sarà inferiore a quello tenuto durante il matrimonio.

Autosufficienza economica: quali sono gli elementi da valutare?

Per decidere se vi sono i presupposti dell’assegno il giudice dovrà valutare soltanto vale a l’indipendenza o l’autosufficienza economica del coniuge che richiede l’assegno divorzile.

In concreto, gli aspetti che il giudice dovrà valutare sono i seguenti:

– l’esistenza di redditi di qualsiasi specie
– la capacità e le possibilità effettive di lavoro
– la proprietà di beni immobili e mobili
– la disponibilità di una casa di abitazione.

Naturalmente, spetterà alla parte che chiede l’assegno dimostrare le proprie condizioni economiche, con documenti, testimonianze ed ogni altra prova utile a provare che la domanda di assegno divorzile è fondata.

Il principio di solidarietà economica per quantificare l’assegno

Una volta accertato che il coniuge non è autosufficiente e dunque vi sono i presupposti per il riconoscimento dell’assegno, la misura andrà determinata dal giudice tenendo conto del principio di solidarietà economica, ovvero del vincolo solidaristico che permane tra gli ex coniugi.
Andranno valutati il contributo dato da ciascuno alla conduzione della famiglia e alla formazione del reddito e del patrimonio dell’altro e di quello comune, la durata del matrimonio e le ragioni della decisione, secondo quanto stabilito dall’art. 5 della legge sul divorzio.
Fonte: Sentenza Cassazione civile n. 11504 del 10.5.2017

Stepchild Adoption: per la Cassazione è sì

Prima pronuncia della Corte di Cassazione in merito ad un caso di adozione del figlio biologico del partner in una coppia omosessuale (cd. stepchild adoption), questione sulla quale manca, come ho già evidenziato in un precedente articolo del blog, una disciplina normativa.
Ecco, sintesi, la vicenda giunta al vaglio dei giudici delle leggi: una coppia di donne, legate da una relazione affettiva molto forte e dal progetto, condiviso, di costruire una famiglia, decidono concordemente di mettere al mondo un figlio. A tale scopo, una delle due ricorre alla fecondazione assistita all’estero. Nasce così una bimba, figlia biologica di una delle due partner, che vive con entrambe in un contesto familiare e di relazioni affettive, sociali e scolastiche analogo quello di tutte le bambine della sua età. La compagna della madre (cd. madre sociale) si rivolge al tribunale chiedendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitoriale già di fatto in essere mediante l’adozione della minore ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge 184/83 (adozione in casi speciali).
Il Tribunale per i minorenni, prima, e la Corte d’Appello, poi, accolgono la domanda, avendo verificato – dopo approfondite indagini – che ciò risponde all’interesse della bambina, dato il profondo legame sussistente e la relazione genitoriale a tutti gli effetti presente anche con la madre sociale.
La decisione della Corte d’Appello viene impugnata dal Procuratore della Repubblica che contesta due profili: da un lato, la mancata nomina di un curatore speciale a tutela degli interessi della minore della cui adozione si discute, dall’altro, l’insussistenza dello stato di abbandono della minore che escluderebbe, in sè, la possibilità di poterla dichiarare adottabile.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi di ricorso della Procura, ritenendo non obbligatoria la nomina di un curatore speciale del minore per l’adozione in casi particolari.
Quanto allo stato di abbandono – specifica la Cassazione – solo l’adozione legittimante richiede come presupposto indefettibile lo stato di abbandono del minore; per l’adozione in casi speciali, quale quella richiesta dalla madre sociale, è sufficiente che venga constatata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo, e dunque anche la mera impossibilità giuridica, presupposto presente nel caso in esame.
Insomma, i motivi contestati dalla Procura, relativi essenzialmente alla regolarità formale della procedura, sono stati ritenuti infondati, con conseguente conferma della pronuncia di adozione della minore.

L’adozione del figlio della partner nella coppia same-sex è dunque possibile, anche se in forma di adozione speciale, non legittimante, e non come adozione piena. Per le differenze tra i due tipi di adozione, vi invito a leggere la pagina del sito dedicata alle adozioni.

Fonte: Cassazione civile sentenza n. 12962 del 22.6.2016

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

Le unioni civili in 10 punti

Dopo la faticosa conclusione dell’iter parlamentare,  la legge sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà) é stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 118 del 21 maggio scorso come Legge n. 76 del 20.5.2016.

Si tratta di una epocale riforma del diritto di famiglia, oggetto ampio ed acceso dibattito anche nella società civile.
Con la nuova legge 76/2016 viene introdotta nel nostro ordinamento, oltre alla regolamentazione delle convivenze di fatto, la disciplina normativa delle unioni tra persone dello stesso sesso, del tutto assente in precedenza. Ne esaminiamo in sintesi, i principali elementi.

1. Cos’è l’unione civile?

Le unioni civili sono un istituto riservato alle coppie same sex e si avvicinano, per molti profili, al matrimonio.
L’unione civile viene definita dalla legge “una formazione sociale specifica” tutelata ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, ma non vi è dubbio alcuno che si tratti di un istituto di diritto di famiglia.

2. Come si costituisce

L’unione civile si costituisce con le stesse modalità del matrimonio civile: mediante una dichiarazione resa dalle parti all’Ufficiale di Stato civile alla presenza di due testimoni.
A differenza del matrimonio, la celebrazione dell’unione civile non dev’essere preceduta dalle pubblicazioni.

3. La scelta del cognome

Diversa dal matrimonio è la disciplina del cognome: mentre nel matrimonio la donna assume il cognome del marito, nell’unione civile le parti hanno la possibilità di scegliere di utilizzare un cognome comune, scegliendolo tra i loro, anteponendolo o posponendolo al proprio. L’uso del cognome comune cessa in caso di scioglimento del vincolo.

4. I diritti e doveri reciproci

Con l’unione civile, i partner acquisiscono reciprocamente una serie di diritti e doveri, analoghi a quelli del matrimonio, ed in particolare:
il diritto – dovere all’assistenza morale e materiale
– il dovere di coabitazione
– l’obbligo di contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanza e alle proprie capacità di lavoro, professionale e domestico.

Come nel matrimonio, le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune.

Nei primi commenti alla normativa, la dottrina ha sottolineato la mancata previsione dell’obbligo di fedeltà per l’unione civile: secondo alcuni interpreti, l’obbligo di fedeltà è comunque presente, quale elemento implicito del dovere di assistenza morale e materiale; altri, invece, hanno evidenziato come in realtà l’evoluzione dei costumi e della giurisprudenza abbia nel tempo notevolmente ridimensionato l’importanza dell’obbligo di fedeltà nel matrimonio, svuotandolo di contenuto e rilievo. Dalla violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale derivano oggi possibili conseguenze soltanto per ciò che attiene l’addebito della separazione, istituto non previsto per le unioni civili.
Mancando la separazione personale (e conseguentemente l’addebito), la violazione dei doveri nascenti dall’unione civile rileverà soltanto ai fini di un’eventuale domanda di risarcimento del danno e, in caso di scioglimento dell’unione, ai fini della quantificazione dell’eventuale assegno di mantenimento per la parte economicamente più debole.

5. Il regime patrimoniale

Identico al matrimonio è il regime patrimoniale dell’unione civile: in mancanza di diversa scelta delle parti, si applica la comunione legale prevista per i coniugi.

6. Si applicano le norme sul matrimonio

Il comma 20 dell’art. 1 della legge 76/2016 stabilisce espressamente che all’unione civile si applicheranno soltanto le norme del codice civile relative al matrimonio espressamente richiamate dalla legge stessa; si applicheranno, inoltre, tutte le altre norme che si riferiscono al matrimonio (previste in leggi, regolamenti, atti amministrativi, contratti collettivi) “al solo fine di assicurare l’effettività di tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile“.
Tra le norme del codice civile richiamate dalla legge 76/16 si segnalano: l’art. 342 ter c.c. (ordini di protezione contro la violenza in famiglia), gli artt. 65 e 68 (effetti della dichiarazione di morte presunta); le norme in materia di nullità del vincolo (comma 5); le norme in materia di regime patrimoniale e delle convenzioni e di alimenti (comma 19); gli artt. 2118 e 2120 (indennità dovute al lavoratore); 116 (unione contratta dallo straniero in Italia), 146 (giusta causa di allontanamento e sequestro), 2647, 2653, 2569 (trascrizione).

7. In caso di morte di una persona unita civilmente

Ai fini successori la posizione dell’unito civilmente è equiparata a quella del coniuge per quanto attiene l’indegnità, la quota di legittima, l’ordine di chiamata nella successione legittima, la collazione ed il patto di famiglia.

8. Amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione

Inoltre, la persona unita civilmente assume un ruolo specifico nell’amministrazione di sostegno: il comma 15 dell’art. 1 della legge 76/2016 prevede che il Giudice tutelare debba preferire, dove possibile, nella scelta dell’amministratore di sostegno, la persona unita civilmente al beneficiario. Inoltre, l’unito civilmente può promuovere le procedure di interdizione ed inabilitazione.

9. Come si scioglie l’unione civile

L’unione civile si scioglie nei seguenti casi:
morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti
– in caso di sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
– per volontà di uno o di entrambi i componenti dell’unione. In questo caso, la procedura per lo scioglimento prevede che una o entrambe le parti debbano dichiarare la volontà di scioglimento innanzi all’Ufficiale di Stato civile e successivamente, decorsi tre mesi, chiedere al Tribunale lo scioglimento dell’unione.
Allo scioglimento dell’unione civile si applicano quasi tutte le norme del divorzio. Non è prevista, come detto, la separazione legale, ma soltanto un periodo di separazione di fatto, della durata di 3 mesi.

10. Quando diverranno effettive le unioni civili?

Le norme sulle unioni civili entreranno in vigore il 5 giugno  2016. Per la piena applicazione occorrerà, tuttavia, attendere l’emanazione dei decreti attuativi relativi, tra l’altro, alla tenuta dei Registri dello Stato civile (art. 1, comma 34  della legge). Presumibilmente, dunque, sarà possibile celebrare le prime unioni civili il prossimo autunno.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76

Rapporto di lavoro nella famiglia di fatto: il convivente ha diritto ad un indennizzo

Mentre è prossima la discussione alla Camera del disegno di legge Cirinná sulle unioni civili, la Corte di Cassazione è di recente intervenuta sul tema dei rapporti economici nella famiglia di fatto, con una interessante sentenza, la n. 1266/16, relativa al lavoro prestato dal convivente more uxorio nell’impresa del compagno.

La vicenda giunta all’esame della Suprema Corte riguardava, più specificamente, l’attività di collaborazione prestata da una donna nel ristorante di proprietà del compagno. La signora aveva lavorato in maniera continuativa, contribuendo in modo concreto al successo dell’attività di ristorazione ed all’arricchimento personale del convivente. Ed infatti, quest’ultimo, con i proventi dell’attività, aveva acquistato un consistente patrimonio immobiliare, intestato esclusivamente a sè. Entrata in crisi la coppia, la signora aveva agito in giudizio contro l’ex compagno,  chiedendo che venisse riconosciuto il controvalore economico del lavoro prestato nel ristorante.

In assenza di una normativa specifica, l’interpretazione giurisprudenziale ha finora ritenuto che il contributo offerto dal convivente alla famiglia di fatto trovi fondamento nei vincoli di solidarietà e collaborazione reciproca, tipici del rapporto di convivenza, e che, per tale ragione, costituisca un’obbligazione naturale, la quale, una volta erogata, non è più passibile di restituzione.  Questo vale certamente per l’aiuto nella gestione domestica, nella cura della casa e nell’accudimento della prole.

Ma può valere anche per la collaborazione prestata da uno dei conviventi nell’attività d’impresa dell’altro?

Se si tratta di collaborazione soltanto occasionale e sporadica, sì: il convivente che, di tanto in tanto, aiuta il compagno nell’attività commerciale di questi, prestando in essa il proprio lavoro saltuariamente, lo fa per ragioni solidaristiche e per dare un aiuto, in senso lato, alla famiglia.

Ma diverso é il caso del lavoro svolto da uno dei conviventi in modo stabile e continuativo nell’impresa dell’altro: non siamo più nell’ambito delle obbligazioni naturali – afferma la Corte di Cassazione nella pronuncia in esame – poichè il rapporto di collaborazione continuativa esula dai principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne discende il diritto di colui che ha prestato il proprio lavoro ad ottenere un indennizzo per l’attività prestata.  A maggior ragione se questo lavoro è andato ad arricchire esclusivamente il titolare dell’impresa ed i guadagni non sono stati destinati alla famiglia-coppia di fatto, come accaduto nel caso deciso con la sentenza citata.

La Cassazione ha ritenuto, dunque,  che la collaborazione prestata dalla convivente fosse meritevole di un indennizzo economico, quantificato, nel caso di specie, in 80.000,00 euro, dovuti dall’ex convivente, titolare dell’attività commerciale, a titolo di arricchimento senza causa.

Fonte: Corte di Cassazione sentenza n. 1266/2016 del 25.01.2016.