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Divorzio: quanto conta la convivenza prematrimoniale?

La convivenza prematrimoniale è sempre più riconosciuta non solo come una fase preparatoria al matrimonio, ma anche come un elemento significativo nelle decisioni relative al divorzio.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno infatti recentemente stabilito che la durata della convivenza precedente il matrimonio dev’essere tenuta in considerazione nella determinazione dell’assegno di divorzio, al pari della durata del rapporto matrimoniale vero e proprio, successivo alle nozze.
La decisione, di importanza storica, riflette il cambiamento dei costumi e riconosce l’importanza dei legami di fatto nella società contemporanea.

La valenza della convivenza prematrimoniale

Secondo la Corte di Cassazione, la convivenza prematrimoniale deve essere considerata quando si decide sull’assegno di divorzio e sulla sua quantificazione. Questo riconoscimento tiene conto delle convivenze di fatto come formazioni familiari e sociali di pari dignità rispetto a quelle matrimoniali. La legge sul divorzio del 1970, infatti, non contemplava la convivenza prematrimoniale, essendo quest’ultima molto rara all’epoca. Oggi, però, la realtà è cambiata e la convivenza prematrimoniale è diventata un fenomeno radicato nei comportamenti sociali.

Il contributo economico e le rinunce

La Suprema Corte ha ribadito che l’assegno di divorzio ha una natura assistenziale, perequativa e compensativa. Pertanto, nel decidere sull’assegno, il giudice deve considerare la convivenza prematrimoniale quando questa presenta connotati di stabilità e continuità e quando è basata su un progetto di vita comune che ha comportato reciproche contribuzioni economiche. È fondamentale valutare il contributo di ciascun partner alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale.

In particolare, il giudice deve verificare se la coppia durante la convivenza prematrimoniale abbia fatto scelte condivise che abbiano poi influenzato la vita matrimoniale. Queste scelte possono includere sacrifici o rinunce, specialmente in ambito lavorativo o professionale, del coniuge economicamente più debole, che può risultare incapace di disporre ai adeguate risorse economiche dopo il divorzio. Tali sacrifici o rinunce devono essere dimostrati e collegati causalmente alla situazione economica post-divorzio.

In conclusione

La convivenza prematrimoniale è ora riconosciuta come un elemento significativo nel determinare il diritto e l’ammontare dell’assegno di divorzio. Questo riconoscimento da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è un passo avanti nella tutela dei diritti dei conviventi e riflette un adeguamento dell’interpretazione giurisprudenziale ai cambiamenti sociali.
Per le coppie che decidono di convivere prima del matrimonio, è essenziale essere consapevoli delle implicazioni legali di questa scelta, e consultare un avvocato esperto della materia può fornire un supporto fondamentale per affrontare al meglio le eventuali future decisioni legali.

Fonte: Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 35385 del 18.12.2023

Assegnazione della casa familiare nella separazione: criteri, diritti e doveri

L’assegnazione della casa familiare è una misura prevista dal nostro ordinamento per tutelare il benessere dei figli minori e garantire loro stabilità e continuità abitativa anche dopo la separazione o il divorzio dei genitori. Questo provvedimento ha come obiettivo principale la protezione degli interessi della prole, permettendo loro di continuare a vivere nell’ambiente domestico che conoscono, riducendo al minimo i traumi e i disagi derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare.

La normativa di riferimento

La regolamentazione dell’assegnazione della casa familiare è disciplinata principalmente dagli articoli 337 ter e 337 sexies del codice civile. Questi articoli stabiliscono i criteri e le modalità con cui viene deciso l’assegnazione dell’abitazione familiare, ponendo particolare attenzione agli interessi dei figli minori ed evidenziando anche i risvolti economici dell’assegnazione.

Quali sono i criteri di assegnazione?

 

  1. Interessi dei figli: la casa familiare viene assegnata al genitore con cui i figli minori convivono stabilmente. L’assegnazione mira a preservare l’ambiente domestico, le abitudini e le relazioni affettive dei minori, considerati fondamentali per il loro sviluppo equilibrato e sereno. L’assegnazione è prevista anche in presenza di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti e anche in caso di figli maggiorenni  con gravi disabilità.

 

  1. Stabilità abitativa: viene valutato il tempo e la stabilità con cui il figlio ha vissuto nella casa familiare. La continuità abitativa è considerata un elemento cruciale per evitare ulteriori traumi ai bambini.

 

  1. Condizioni economiche: anche le condizioni economiche dei genitori vengono prese in considerazione.  Il tribunale valuta l’impatto economico dell’assegnazione sia sul genitore che mantiene il possesso della casa, sia su quello che ne perde la disponibilità.

 

  1. Diritti di proprietà: Se la casa familiare è di proprietà esclusiva di uno dei genitori, questo elemento viene considerato nella decisione, ma non prevale sugli interessi della prole. L’assegnazione può comunque essere disposta a favore dell’altro genitore se ciò risponde meglio alle esigenze dei figli.

Quanto dura l’assegnazione?

L’assegnazione della casa familiare ha una durata che è strettamente legata alle esigenze dei figli . Il diritto di abitazione cessa quando i figli diventano economicamente autosufficienti. In alcuni casi, l’assegnazione può essere rivista se cambiano le condizioni personali o economiche dei genitori o dei figli.

Quali diritti e doveri discendono dall’assegnazione?

  1. Usufrutto e diritto d’abitazione: Il genitore assegnatario non acquisisce la proprietà dell’immobile, né i diritti reali di usufrutto o di abitazione, acquista più semplicemente un diritto personale di godimento dell’immobile limitato al periodo necessario per il benessere dei figli.
  2. Manutenzione e spese: Le spese di manutenzione ordinaria dell’immobile restano a carico del genitore assegnatario, mentre quelle straordinarie spettano al proprietario dell’immobile.

Nel prossimo articolo esamineremo una recente sentenza della Corte d’appello di Milano che affronta proprio il tema dell’assegnazione della casa familiare.

 

Mediazione Familiare: cos’è e come funziona

Esistono alternative che possono rendere il percorso della separazione meno doloroso e più costruttivo. Uno strumento sempre più riconosciuto nel panorama giuridico del diritto di famiglia è la mediazione familiare.

Che cos’è la mediazione familiare?

La mediazione familiare rappresenta un approccio consensuale alla risoluzione delle controversie familiari, coinvolgendo un mediatore che si pone in posizione neutra rispetto alle parti. Questo professionista facilita la comunicazione tra le parti, promuovendo un dialogo costruttivo e aiutando a raggiungere accordi soddisfacenti per entrambe le parti.

Quali vantaggi porta?

1. riduce lo stress emotivo: la mediazione offre un ambiente meno formale rispetto al tribunale, consentendo alle persone di affrontare le questioni in modo meno conflittuale, utilizzando un approccio che non riguarda soltanto i profili giuridici della separazione ma anche aspetti psicologici ed emotivi;

2. consente di risparmiare tempo e costi: a differenza di un procedimento contenzioso che può trascinarsi a lungo, la mediazione è più veloce e quando conduce ad un accordo consente di ridurre le spese legali;

3. conduce a soluzioni personalizzate: la flessibilità della mediazione consente alle parti di personalizzare le soluzioni, prendendo in considerazione le esigenze specifiche dei genitori e dei figli coinvolti;

4. preserva le relazioni familiari: la mediazione favorisce la comunicazione costruttiva, contribuendo a preservare le relazioni familiari, specialmente quelle tra genitori e figli.

La mediazione familiare è obbligatoria?

No, nel nostro ordinamento non è obbligatorio svolgere la mediazione familiare prima di rivolgersi al tribunale. Si tratta di un percorso volontario, che necessariamente richiede l’assenso e la disponibilità delle parti a mettersi in discussione e ad avvicinarsi in modo costruttivo all’altro.

Quando dura la mediazione familiare?

La mediazione non ha una durata fissa, varia a seconda delle situazioni. In alcuni casi possono bastare una decina di incontri, in altri il percorso è più lungo.

Quando può essere avviata la mediazione familiare?

La mediazione familiare si configura come un’opzione accessibile in qualsiasi momento della crisi separativa, sia prima dell’inizio di un procedimento giudiziale che durante il suo svolgimento.

Negli ultimi anni, molti tribunali hanno adottato un approccio favorevole alla mediazione: al ricevimento di un ricorso giudiziale, invitano le parti coinvolte a considerare il percorso della mediazione, particolarmente nei mesi di attesa precedenti all’udienza. Questa modalità si basa sulla speranza che il periodo di attesa possa essere sfruttato per una riflessione più approfondita da parte della coppia, con il supporto di professionisti specializzati.

Inoltre, spesso accade che sia lo stesso giudice del procedimento in corso ad invitare le parti a ricercare una soluzione conciliativa davanti ad un mediatore familiare, nell’auspicio di ridurre la conflittualità e di poter definire la causa con un accordo raggiunto dai diretti interessati con l’aiuto del mediatore.

Altre volte, sono le stesse parti coinvolte che, dopo mesi di contenzioso giudiziale, decidono di prendere un percorso diverso. Richiedono al giudice la sospensione della causa, comunicando l’intenzione di intraprendere un tentativo di mediazione familiare.

La possibilità di avvalersi della mediazione familiare durante le diverse fasi del procedimento legale sottolinea la flessibilità di questo approccio e la sua adattabilità alle esigenze specifiche delle coppie coinvolte.

 

Guida alla separazione: i primi 5 passi

La separazione rappresenta un momento estremamente delicato nella vita di una persona, caratterizzato da emozioni intense che richiedono una gestione attenta. Pertanto, è importante non  farsi travolgere dai sentimenti e cercare di mantenere la lucidità necessaria per affrontare al meglio e in modo costruttivo questo periodo.

Stai pensando di separarti?

Ecco alcuni suggerimenti legali su come gestire la fase iniziale della separazione:

1- Chiama l’avvocato

Prima di prendere qualsiasi decisione durante questa fase cruciale della tua vita, è fondamentale consultare un avvocato specializzato in diritto di famiglia. Questo passo ti aiuterà a comprendere i tuoi diritti e doveri durante la separazione, consentendoti di valutare soluzioni che garantiscano la migliore tutela per i tuoi interessi e di quelli dei tuoi figli.

2 – Comunica con il coniuge

Cerca di mantenere un dialogo aperto e costruttivo con il tuo coniuge, specialmente se ci sono figli coinvolti. Risolvere le questioni in modo amichevole è preferibile, ma evita di prendere decisioni legali senza prima aver consultato un avvocato.

3- Tutela i tuoi figli

Evita di coinvolgere i figli nel conflitto. Durante la delicata fase della separazione, è cruciale fornire ai figli il supporto e l’assistenza di entrambi i genitori, agendo con buon senso e evitando di farsi travolgere dalle emozioni negative.

4 – Raccogli i documenti finanziari

Raccogli con cura tutti i documenti finanziari pertinenti, come estratti dei conti correnti bancari, dichiarazioni dei redditi, contratti di lavoro e altri documenti utili per ricostruire accuratamente la situazione economica tua e del tuo coniuge.

5 – Non lasciare la casa coniugale

Per le persone sposate, vivere sotto lo stesso tetto è un obbligo di legge. A meno che non ci siano gravi motivi come violenze o maltrattamenti, lasciare la casa coniugale senza l’autorizzazione scritta dell’altro coniuge può comportare conseguenze giuridiche significative nella procedura di separazione. Consulta sempre un avvocato prima di prendere questa decisione!

 

Ricorda che questi sono soltanto consigli generali e che è essenziale ottenere consulenza legale personalizzata in base alla tua situazione specifica. Un avvocato matrimonialista competente ed esperto della materia del diritto di famiglia può guidarti attraverso il percorso legale, assicurando la protezione dei tuoi interessi.

Quando spetta l’assegno di mantenimento?

Con l’ordinanza n. 36178 del 28 dicembre 2023 la Corte di Cassazione ha ribadito i criteri imprescindibili per ottenere l’assegno di mantenimento nella separazione. Più specificamente, i seguenti:

a) Impossibilità di conservare il tenore di vita goduto durante il matrimonio 

La Cassazione ha affermato con chiarezza che l’assegno di mantenimento spetta al coniuge che, senza colpa, si trova nell’impossibilità oggettiva di mantenere un tenore di vita adeguato, vale a dire uno standard di vita analogo a quello che il matrimonio gli avrebbe potuto offrire.

Al riguardo, il giudice della separazione deve tener conto delle potenzialità economiche di entrambi i coniugi, da individuarsi con riferimento allo standard di vita familiare reso oggettivamente possibile dal complesso delle loro risorse economiche, in termini di redditività, capacità di spesa, garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro.

b) Condizione di debolezza economica

Ha diritto all’assegno di mantenimento il coniuge che versa in una condizione economica inferiore rispetto all’altro.

Il giudice della separazione, con sguardo attento, deve comparare le condizioni economiche di entrambi i coniugi, tenendo conto di variabili come la durata della convivenza e le prospettive future.

Nell’esame della condizioni economiche – specifica la Suprema Corte – non è necessario che il giudice si addentri in una dettagliata disamina dei patrimoni e dei redditi dei coniugi. Ciò che conta è una ricostruzione generale e attendibile, una visione d’insieme che getti luce sulla situazione economica complessiva di ciascuno dei due.

 

Fonte: Cassazione civile ordinanza n. 36178 del 28 dicembre 2023

Ascolto del minore: un diritto fondamentale

Nel contesto dell’ascolto del minore nell’ambito dei procedimenti giudiziari, l’art. 473-bis.4 c.p.c. ha introdotto importanti cambiamenti, superando il vecchio art. 336-bis c.p.c. Oltre a considerare le difficoltà fisiche o psichiche del minore quali elementi ostativi all’ascolto, ora si tiene conto anche della sua volontà di non essere ascoltato.

La nuova disposizione conferma che l’ascolto del minore non è soltanto un elemento procedurale, ma un diritto fondamentale della persona del minore. È uno strumento cruciale per proteggere l’interesse del minore e fare in modo che le decisioni più importanti per la sua vita siano prese considerando la sua volontà e i suoi sentimenti.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, nella recente sentenza dell’11 dicembre 2023 n. 34560.

Il caso

La sentenza riguarda un caso di risarcimento del danno da fatto illecito in ambito familiare: la madre di un minore era stata condannata in primo grado e in appello a risarcire i danni provocati all’ex marito cui aveva impedito di vedere il figlio, danni quantificati nell’importo di circa 35.000,00 €.

La signora si rivolge quindi alla Corte di Cassazione lamentando un vizio di legittimità del procedimento, nel quale non era stato sentito il figlio minore, a suo avviso parte interessata alle vicende oggetto di causa.

La Corte d’Appello, in particolare, aveva respinto la richiesta sottolineando che l’audizione del figlio era superflua, poiché si trattava di un giudizio di risarcimento danni tra i genitori, e quindi di una lite che riguardava soltanto gli adulti, non direttamente il minore.

La decisione

La Cassazione ha respinto il ricorso della madre, sostenendo che il procedimento in questione non rientrava tra quelli in cui il minore dev’essere ascoltato, non trattandosi di un procedimento nel quale il figlio è a tutti gli effetti parte del processo e nel quale si decidono questioni che lo riguardano direttamente. Questa decisione riflette l’applicazione corretta delle normative che regolano l’ascolto del minore.

La pronuncia è molto interessante, poiché ricostruisce in modo dettagliato l’evoluzione dell’istituto dell’ascolto del minore e chiarisce che l’ascolto del minore è un elemento chiave per garantire un processo giusto e equo, tenendo conto dei suoi interessi specifici.

La natura giuridica dell’ascolto del minore

Il diritto all’ascolto del minore è stato rafforzato a livello internazionale e nazionale, riconoscendo la sua natura di diritto fondamentale.

In ambito nazionale già con la legge n. 219 del 2012 si è affermata la necessità di ascoltare il minore ultradodicenne nei procedimenti che lo riguardano.

Più di recente, la riforma entrata in vigore il 28 febbraio 2023, ha introdotto l’art. 473-bis.4 c.p.c. nel quale viene precisato che nella decisione sull’ascolto del minore si deve tenere conto anche della volontà del minore di non essere ascoltato.

Ciò conferma che l’ascolto del minore non è solo un incombente processuale, ma un diritto sostanziale: si tratta di una modalità tra le più rilevanti, di riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, e gli consente dunque di partecipare alle decisioni relative alla sua sfera individuale, configurandosi come uno strumento di tutela e conseguimento del suo interesse nell’ambito del procedimento.

L’ascolto del minore è dunque un diritto fondamentale della persona del minore, uno strumento essenziale per garantire che le decisioni giuridiche tengano conto della volontà e dei sentimenti del minore.

 

Fonte: Corte di Cassazione sentenza n. 34560 dell’11 dicembre 2023.

Come si calcola l’assegno per i figli?

Per calcolare l’ammontare del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, si deve fare riferimento al principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.

Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza del 22 novembre 2023 n. 32466.

Il caso

Il ricorso riguardava una controversia sul contributo economico dovuto dal padre per il mantenimento di un figlio minore. La Corte d’Appello aveva precedentemente stabilito che nonostante una riduzione dei redditi, il padre aveva ancora risorse sufficienti grazie a contratti con società calcistiche.
Il genitore ha presentato ricorso per cassazione, affermando che la Corte d’Appello aveva violato il principio di proporzionalità e non aveva considerato adeguatamente la sua situazione economica.

La decisione

La Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso e ha sottolineato che, per quantificare il contributo al mantenimento dei figli, è necessaria la comparazione dei redditi di entrambi i genitori, considerando anche le esigenze attuali del figlio e il tenore di vita.
La Cassazione ha evidenziato che la Corte d’Appello non aveva indagato sulle risorse patrimoniali e reddituali della madre convivente con il figlio, nonostante le specifiche richieste del padre. Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la decisione impugnata e ha rinviato il caso alla Corte d’Appello di Napoli in una diversa composizione per una nuova valutazione, inclusa la liquidazione delle spese del giudizio.

Fonte: Cassazione ordinanza n. 32466 del 22 novembre 2023.

Per il rilascio del passaporto non serve (più) il consenso dell’altro genitore

Il decreto legge n. 69/2023, entrato in vigore il 14 giugno 2023, ha cambiato le regole per ottenere il passaporto in Italia. In precedenza, in presenza di figli minorenni, per il rilascio e per il rinnovo del passaporto di uno dei genitori era sempre necessario il consenso dell’altro.

Ora non è più così: un genitore che vuole il rilascio o il rinnovo del suo passaporto non ha più bisogno del consenso dell’altro. Resta obbligatorio il consenso di entrambi i genitori o di chi ne ha la responsabilità soltanto per il rilascio del passaporto dei minorenni.

Cosa può fare l’altro genitore se non è d’accordo per il rilascio del passaporto?

Se uno dei genitori intende opporsi al rilascio o al rinnovo del passaporto dell’altro, deve presentare istanza al giudice, indicando le motivazioni a fondamento della domanda.

Il tribunale, nel rispetto del principio di proporzionalità e tenendo conto della normativa interna e internazionale in materia di responsabilità genitoriale, mantenimento e sottrazione internazionale di minori,  emette un divieto (inibitoria) quando vi è rischio reale che il genitore, recandosi all’estero, possa venire meno ai suoi doveri verso i figli. Se la richiesta viene accolta, il giudice stabilisce per quanto tempo rimarrà in vigore l’inibitoria, che comunque non può superare i due anni.

La richiesta dev’ essere presentata al tribunale nel luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Se è già in corso una procedura legale tra le stesse persone, la richiesta va presentata al giudice di quella procedura. Se il minore vive all’estero, la richiesta va presentata al tribunale in Italia dove viveva prima o al tribunale nella zona in cui il minore è registrato all’AIRE.

La domanda di inibitoria può essere presentata anche dal Pubblico Ministero.

 

Fonte: Art. 20 del decreto legge n. 69 del 13 giugno 2023.

Adozione speciale: il legame coi parenti adottivi è un diritto del minore

E’ stata pubblicata lo scorso 28 marzo la sentenza della Corte Costituzionale n. 79/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità delle norme relative all’adozione in casi particolari (detta anche “adozione speciale”) che non consentono la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante.

Cos’è l’adozione in casi particolari?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale), è regolata dagli art. 44 e seguenti dalla legge 184 del 1983 sull’adozione e viene applicata in quattro ipotesi specifiche:

1 – la prima si verifica quando il minore è orfano di padre di madre e ci sono dei parenti entro il sesto grado o legati a lui da un rapporto affettivo stabile disposti ad occuparsene;

2 – la seconda ipotesi si verifica in favore del figlio del coniuge;

3 – la terza riguarda il minore orfano in condizioni di disabilità;

4– la quarta è infine quella relativa ad una constatata impossibilità di affidamento preadottivo (ciò accade, ad esempio, quando il minore non può essere dichiarato in stato di abbandono).

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) è lo strumento che viene utilizzato per consentire l’adozione del figlio del partner anche in coppie unite civilmente o tra conviventi non coniugati.

Che differenza c’è tra adozione speciale e adozione piena?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) si differenzia dall’adozione piena (o adozione legittimante) per il fatto che nell’adozione in casi particolari non si interrompe il legame del minore adottato con la sua famiglia biologica. I genitori adottivi diventano responsabili della crescita dell’assistenza del minore, ma rimane comunque un rapporto tra il bambino e il suo il nucleo di provenienza.
Al contrario, nell’adozione piena (o adozione legittimante) il legame tra il minore e la famiglia d’origine si interrompe del tutto e il bambino diventa parte per la legge soltanto della famiglia dei genitori adottivi.
Questo comporta delle conseguenze, ad esempio, anche per quanto attiene il cognome: nell’adozione piena il cognome della famiglia adottiva sostituisce il cognome originario del bambino, nell’adozione speciale il cognome del genitore adottivo si aggiunge al cognome originario.

Cosa accade rispetto ai parenti della famiglia adottiva?

Fino all’intervento della Corte Costituzionale, un altro elemento che distingueva l’adozione in casi particolari (o adozione speciale) dall’adozione piena era costituito dal fatto che si creava un rapporto soltanto tra il bambino e il genitore adottivo, ma non si creava un rapporto di parentela tra il bambino adottato e i familiari del genitore adottivo.
Per la legge, il minore adottato con la modalità dell’adozione speciale non aveva, dunque, nella famiglia adottiva fratelli, nonni, ziii e cugini.

La recente sentenza della Consulta ha cambiato le regole, dichiarando non conforme ai principi costituzionali e discriminatoria la regola contenuta nell’art. 55 della legge 184 del 1983 che non consentiva la creazione di un rapporto di parentela tra il minore adottato e la famiglia adottiva.

Il legame coi parenti è un diritto del minore

L’apertura della Corte Costituzionale è il risultato di un progressivo riconoscimento ampliativo dei minori. La normativa e la giurisprudenza degli ultimi anni hanno mostrato grandissima attenzione nei confronti della figura del minorenne e hanno cercato sempre di più di porre tutti i bambini sullo stesso piano, riconoscendo a tutti i figli lo stesso stato giuridico.

Con questo ulteriore tassello la Corte Costituzionale ha affermato che entrare nella rete parentale dei genitori adottivi costituisce un vero e proprio diritto del minore adottato, indipendentemente dal tipo di adozione.

 

Fonte: Corte Costituzionale, sentenza n. 79 del 2022.

Se il marito resta senza lavoro deve continuare a pagare l’assegno di mantenimento alla moglie?

Sì, ma solo se permane un divario tra le condizioni economiche dei coniugi.  Se il reddito del marito rimane superiore a quello della moglie, l’assegno va ridotto, ma non eliminato.

 

Le regole della separazione e del divorzio possono cambiare

Le disposizioni economiche della separazione e del divorzio non sono immutabili nel tempo, ma possono cambiare se cambiano i redditi e il patrimonio dei coniugi o degli ex coniugi.

Pertanto, quando il coniuge tenuto al versamento dell’assegno peggiora la propria condizione economica può rivolgersi al giudice per ottenere la revisione di quanto stabilito nella separazione, domandando la riduzione o l’eliminazione dell’assegno.

Il giudice dovrà rivalutare la condizione economica di entrambi i coniugi e verificare quale sia l’assetto attuale e quanto il cambiamento abbia inciso sulle condizioni economiche delle parti.

Il cambiamento, per fondare la modifica delle precedenti prescrizioni, deve essere rilevante e stabile. Non basta un cambiamento temporaneo o con effetti limitati nel tempo

 

Se il marito perde il lavoro …

In un recente caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano il marito ha chiesto la modifica delle condizioni di separazione dichiarando che la società di cui era amministratore aveva cessato l’attività e di essere pertanto rimasto privo delle relative entrate. Al momento della separazione egli percepiva compensi come amministratore della società e una pensione. Con l’estinzione della società, gli era rimasta solo la pensione.

Alla luce del peggioramento delle sue condizioni economiche, il marito ha chiesto che venisse tolto l’assegno di 2.000,00 € per il mantenimento della moglie previsto al momento della separazione.

I giudici hanno ribadito che la modifica delle condizioni reddituali dei coniugi incide sulle regole relative al mantenimento e consente di rimodulare l’assegno, ma non lo fa venire meno automaticamente.

Nel caso specifico, hanno ritenuto che fosse comunque necessario riconoscere un contributo alla moglie, perché, anche se il marito aveva peggiorato la sua condizione finanziaria, rimaneva comunque un sensibile divario nell’assetto economico dei coniugi. Se il marito si era impoverito, la moglie se la passava peggio, in quanto del tutto priva di redditi.

L’assegno per la moglie è stato così ridotto a 500 € mensili, ma non è stato eliminato.

 

Fonte: Corte d’appello di Milano decreto 27 ottobre 2021