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Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

Nascita indesiderata: l’impossibilità di scelta della gestante è fonte di responsabilità

Le Sezioni Unite della Cassazione sono recentemente intervenute su una questione particolarmente calda in giurisprudenza e nel dibattito dottrinale: la nascita indesiderata.
Il caso giunto all’attenzione della Suprema Corte riguardava la domanda di risarcimento danni formulata nei confronti dei sanitari da due genitori di una bambina affetta da Sindrome down, i quali sostenevano che la patologia del feto non era stata diagnosticata tempestivamente, come invece avrebbe potuto e dovuto essere, dato che dagli esami effettuati emergevano anomalie che, se adeguatamente approfondite, avrebbero consentito di individuarne la presenza. Più in particolare, secondo il costrutto degli attori, la madre, se fosse stata correttamente informata, avrebbe interrotto la gravidanza, come consentitole dalla legge 194/1978, art. 6.
Detta norma stabilisce il diritto della gestante di ricorrere all’aborto dopo il novantesimo giorno di gravidanza quando la gravidanza ed il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Al riguardo le Sezioni Unite hanno precisato che “l’impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all’art.6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato senza limitarsi a seguire le direttive della paziente”.
La gestante, dunque, deve adeguatamente informata sulle condizioni di salute del feto e dev’essere posta nelle condizioni di poter scegliere se portare a termine o meno la gravidanza: i giudici di legittimità hanno dunque ribadito l’orientamento, oramai consolidato, che tutela il diritto all’autodeterminazione del paziente e dunque riconosce come illecita la condotta del medico che fornisca informazioni non corrette o incomplete.
Per ottenere il risarcimento, inoltre, dovranno sussistere ed essere accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, come richiesto dal citato art. 6 della legge 194/1978 (in difetto l’aborto è vietato per legge).
Fin qui, nulla da dire. Il punto critico (e criticabile) della sentenza è un altro e riguarda il pesante onere probatorio che viene posto a carico della madre danneggiata: non le sarà sufficiente provare di non aver ricevuto una corretta informazioni e che il feto era affetto da una patologia grave e tale da porre in pericolo la sua salute psico-fisica, ma dovrà dimostrare la propria volontà di non portare a termine la gravidanza.
Una prova certamente non facile da fornire, in quanto implica un’indagine conoscitiva complessa sulle intenzioni della partoriente,tesa a dimostrare che, qualora tempestivamente informata sulle reali condizioni di salute del nascituro, la madre avrebbe abortito.

Fonte: Corte di Cassazione sentenza n. 25767 del 22.12.2015