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Se il marito resta senza lavoro deve continuare a pagare l’assegno di mantenimento alla moglie?

Sì, ma solo se permane un divario tra le condizioni economiche dei coniugi.  Se il reddito del marito rimane superiore a quello della moglie, l’assegno va ridotto, ma non eliminato.

 

Le regole della separazione e del divorzio possono cambiare

Le disposizioni economiche della separazione e del divorzio non sono immutabili nel tempo, ma possono cambiare se cambiano i redditi e il patrimonio dei coniugi o degli ex coniugi.

Pertanto, quando il coniuge tenuto al versamento dell’assegno peggiora la propria condizione economica può rivolgersi al giudice per ottenere la revisione di quanto stabilito nella separazione, domandando la riduzione o l’eliminazione dell’assegno.

Il giudice dovrà rivalutare la condizione economica di entrambi i coniugi e verificare quale sia l’assetto attuale e quanto il cambiamento abbia inciso sulle condizioni economiche delle parti.

Il cambiamento, per fondare la modifica delle precedenti prescrizioni, deve essere rilevante e stabile. Non basta un cambiamento temporaneo o con effetti limitati nel tempo

 

Se il marito perde il lavoro …

In un recente caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano il marito ha chiesto la modifica delle condizioni di separazione dichiarando che la società di cui era amministratore aveva cessato l’attività e di essere pertanto rimasto privo delle relative entrate. Al momento della separazione egli percepiva compensi come amministratore della società e una pensione. Con l’estinzione della società, gli era rimasta solo la pensione.

Alla luce del peggioramento delle sue condizioni economiche, il marito ha chiesto che venisse tolto l’assegno di 2.000,00 € per il mantenimento della moglie previsto al momento della separazione.

I giudici hanno ribadito che la modifica delle condizioni reddituali dei coniugi incide sulle regole relative al mantenimento e consente di rimodulare l’assegno, ma non lo fa venire meno automaticamente.

Nel caso specifico, hanno ritenuto che fosse comunque necessario riconoscere un contributo alla moglie, perché, anche se il marito aveva peggiorato la sua condizione finanziaria, rimaneva comunque un sensibile divario nell’assetto economico dei coniugi. Se il marito si era impoverito, la moglie se la passava peggio, in quanto del tutto priva di redditi.

L’assegno per la moglie è stato così ridotto a 500 € mensili, ma non è stato eliminato.

 

Fonte: Corte d’appello di Milano decreto 27 ottobre 2021

Separazione e divorzio a confronto

1. Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Separazione personale e divorzio sono due istituti giuridici diversi. La separazione è un passaggio necessario per poter chiedere il divorzio.

Con la separazione si allenta il vincolo del matrimonio, in particolare vengono meno alcuni doveri tipici del matrimonio, in particolare il dovere di convivenza e il dovere di fedeltà. Altri doveri coniugali si allentano: il dovere di assistenza materiale, ad esempio, rimane vivo nel caso ci sia una differenza tra le condizioni economiche dei coniugi.

Con la separazione i coniugi vengono autorizzati a vivere separati e possono smettere di vivere sotto lo stesso tetto.

Se i coniugi sono in regime di comunione legale, con la separazione cessa la comunione legale.

La separazione però non fa venir meno il matrimonio: due persone separate restano comunque sposate, e pertanto non possono sposarsi in seconde nozze e sono l’una erede dell’altra, allo stesso modo dei coniugi non separati.

Il vincolo matrimoniale viene meno soltanto con il divorzio: il divorzio scioglie il matrimonio, consente ai coniugi di riacquistare lo stato civile libero, perciò di potersi risposare, e fa venir meno i diritti ereditari reciproci.

 

2. Quando posso chiedere la separazione?

Si può chiedere la separazione quando la crisi coniugale è irreversibile e si ritiene di non poter proseguire la convivenza matrimoniale. Si tratta di una scelta molto personale e soggettiva.

 

3. Quando posso chiedere il divorzio?

Per chiedere il divorzio è necessario che siano passati almeno sei mesi dalla separazione, se consensuale.

Se la separazione è stata giudiziale, deve passare almeno un anno dalla prima udienza. Si può chiedere il divorzio anche se la causa di separazione è ancora pendente, ma è necessario che sia stata emessa una sentenza non definitiva di separazione.

 

4. Che differenza c’è tra separazione consensuale e separazione giudiziale?

Separazione consensuale e giudiziale sono solo le due modalità per arrivare alla separazione legale.

La separazione consensuale è possibile quando i coniugi raggiungono un accordo sulle regole della loro separazione e stabiliscono assieme l’assetto della loro vita da separati, decidendo, ad esempio, chi resterà nella casa familiare, con chi staranno i figli, in che modo provvedere al mantenimento dei figli, ecc.

La separazione consensuale richiede la capacità dei coniugi di confrontarsi e trovare assieme una soluzione condivisa.

Una volta trovato, l’accordo dev’essere formalizzato mediante un provvedimento del tribunale ovvero, senza passare in tribunale, mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un vero e proprio contratto, sottoscritto alla presenza degli avvocati, che regolamenta la separazione.

La separazione giudiziale, invece, è una vera e propria causa davanti al tribunale, al quale si ricorre quando non è possibile trovare un accordo consensuale.

 

5. Che differenza c’è tra divorzio consensuale e giudiziale?

Anche il divorzio, come la separazione, può seguire una procedura consensuale o giudiziale.

Il divorzio consensuale richiede l’accordo dei coniugi sulle condizioni del divorzio.

L’accordo può essere formalizzato mediante il ricorso al tribunale: il tribunale, sentiti i coniugi in un’unica udienza, decide in camera di consiglio ed emette la sentenza di divorzio. Una volta che la sentenza è diventata definitiva, il divorzio è efficace anche ai fini dello stato civile. Da quel momento è possibile passare a nuove nozze.

Come la separazione, anche il divorzio consensuale si può fare mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un contratto firmato davanti agli avvocati. La procedura di negoziazione assistita non richiede la comparizione dei coniugi in tribunale, ma ci sono una serie di adempimenti che svolgono gli avvocati. Con la negoziazione assistita il divorzio è efficace dalla data della firma dell’accordo.

Quando non è possibile trovare un accordo sulle condizioni del divorzio, è necessario rivolgersi al tribunale con un ricorso per divorzio giudiziale, dando così avvio a una vera e propria causa.

 

6. Che cosa viene deciso nella separazione?

Gli aspetti che vengono decisi nella separazione sono vari.

Se ci sono figli, nella separazione dev’essere deciso il loro affidamento e la loro collocazione abitativa, cioè con quale genitore manterranno la residenza anagrafica, i tempi di permanenza presso l’altro genitore, le modalità con cui ciascun genitore contribuirà al mantenimento dei figli.

Inoltre, si decidono le sorti della casa familiare: quando ci sono figli, la casa viene assegnata al coniuge che ha con sé i figli in via prevalente. Assegnazione vuol dire che il coniuge ha diritto di rimanere a vivere nella casa coniugale, anche se non è di sua proprietà, fino a che i figli non raggiungono l’indipendenza economica.
In assenza di figli, si dovrà stabilire chi resterà a vivere nella casa.

Nella separazione, inoltre, si deve regolare il contributo al mantenimento del coniuge, se ve ne sono i presupposti. In generale, l’assegno per il coniuge viene stabilito quando c’è una differenza significativa tra i redditi dei coniugi.

Nella separazione giudiziale, può essere discussa anche la domanda di addebito della separazione, cioè l’accertamento che le ragioni della crisi familiare sono state determinate dal comportamento di uno dei due coniugi. Questo accade, ad esempio, nel caso in cui la separazione sia stata causata da maltrattamenti o dall’adulterio.

 

7. Che cosa viene deciso nel divorzio?

Nel divorzio viene disposto lo scioglimento del matrimonio e per il resto vengono esaminati gli stessi temi che abbiamo visto sopra per la separazione, tranne la domanda di addebito.

L’addebito, infatti, può essere chiesto solo nella separazione giudiziale. Nel divorzio non si torna più a discutere delle cause che hanno portato alla separazione, a meno che le cause non siano ritenute rilevanti ai fini della domanda di assegno divorzile.

Anche sotto il profilo economico ci sono alcune differenze tra l’assegno di mantenimento del coniuge che viene stabilito nella separazione e l’assegno di divorzio. L’assegno divorzile, vale a dire l’assegno che spetta al coniuge meno abbiente, si basa infatti su presupposti diversi dall’assegno di mantenimento del coniuge della separazione.

 

8. Le regole della separazione o del divorzio possono essere cambiate?

Le regole fissate nella separazione e nel divorzio non restano fisse nel tempo e possono essere cambiate ogni volta che intervengono fatti nuovi rilevanti che vanno ad incidere sull’assetto definito nella separazione o nel divorzio.

Si considerano rilevanti tutti gli eventi che riguardano la condizione lavorativa (ad esempio, la perdita del lavoro, il pensionamento, il passaggio ad un impiego più redditizio, ecc.) o la salute (ad esempio, l’invalidità sopravvenuta) o le nuove situazioni familiari dei coniugi (ad es. la convivenza stabile con un nuovo compagno, la nascita di un figlio) o ancora la crescita dei figli (ad es. il trasferimento all’estero, il raggiungimento dell’indipendenza economica, ecc.).

La modifica delle condizioni di separazione e divorzio non può essere concordata privatamente, ma richiede un atto formale, analogo a quello che si vuole modificare. Sarà dunque necessario un nuovo accordo ratificato dal tribunale o dagli avvocati nell’ambito della procedura di negoziazione assistita.

In mancanza di accordo, si può avviare in tribunale un apposito procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Si tratta di un procedimento che ha un iter veloce e una procedura semplificata.

 

9. Cosa devo fare se mio marito/mia moglie non si vuole separare?

Nel nostro ordinamento la separazione è un diritto, pertanto è sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi.
Se l’altro non si vuole separare, si può comunque ottenere la separazione avviando il procedimento di separazione giudiziale.

 

10. Esiste la separazione per colpa?

Non c’è nel nostro ordinamento una separazione per colpa, ma è possibile chiedere nella separazione giudiziale che il tribunale accerti che la fine del matrimonio è stata causata dal comportamento di uno solo dei coniugi. Si tratta della domanda di addebito della separazione.

Serve a dimostrare che la causa della crisi coniugale è stata determinata dal comportamento di uno dei due coniugi che ha violato i doveri coniugali stabiliti dalla legge. I casi più frequenti riguardano l’adulterio (che integra violazione del dovere di fedeltà) e l’abbandono del tetto coniugale (il coniuge che va via di casa senza giusta causa viola il dovere di coabitazione).

L’addebito della separazione ha l’effetto di far venir meno il diritto all’assegno di mantenimento, se presente, e di far venir meno i diritti ereditari del coniuge cui la separazione viene addebitata. Inoltre, comporta la condanna al pagamento delle spese legali della causa di separazione.

 

11. Quanto dura una causa di separazione o di divorzio giudiziale?

La durata è quella di un procedimento giudiziale, in genere ci vogliono almeno due, tre anni per arrivare alla decisione conclusiva. Alle volte anche di più, dipende anche dalla tipologia degli accertamenti istruttori che vengono chiesti. Ad esempio, se viene richiesta una perizia sulle condizioni economiche dei coniugi, si devono considerare anche i tempi tecnici necessari per l’esecuzione dell’indagine.

In ogni caso, sia nella separazione che nel divorzio giudiziale, il tribunale già dalla prima udienza stabilisce regole provvisorie che disciplinano i rapporti tra i coniugi e con i figli. Queste regole possono sempre essere modificate nel corso del procedimento su richiesta dei coniugi e comunque possono essere modificate dalla sentenza che chiude il procedimento.

 

Recupero delle spese straordinarie per i figli: la Cassazione cambia le regole

Con una recentissima sentenza, la n. 40992 del 21 dicembre 2021 , la Cassazione ha stabilito che per il recupero delle spese straordinarie anticipate da uno dei genitori nell’interesse dei figli non è più necessario richiedere un decreto ingiuntivo, ma si può procedere direttamente con l’atto di precetto, allegando la documentazione di spesa.

Si tratta di una decisione importante che avalla un orientamento interpretativo già emerso in passato (v. Cassazione n. 4182/2016), anche se minoritario.

Cosa cambia in concreto?

Vediamolo assieme, partendo dalle basi.

Cosa sono le spese straordinarie per i figli?

Si tratta delle spese per i figli che riguardano la salute, la scuola, le attività sportive, i corsi, le vacanze studio e tutto ciò che non rientra nel mantenimento ordinario dei figli. Fanno parte del mantenimento ordinario le spese di vitto, alloggio, igiene personale, quali barbiere, parrucchiere, estetista e quanto necessario alle ordinarie esigenze di vita del figlio.

Quando i genitori si separano, si stabilisce che il genitore che non vive stabilmente con il figlio versi un importo fisso mensile per il mantenimento ordinario del figlio, mentre le spese straordinarie sono poste a carico di  entrambi i genitori, di norma in misura del 50% ciascuno.

Qual è la percentuale di contributo alle spese straordinarie?

Nella maggior parte dei casi, la percentuale di concorso alle spese straordinarie è del 50%. Il che significa che ciascun genitore è tenuto a provvedere a metà della spesa.

Ma la misura del contributo può variare in base alle condizioni economiche dei genitori: ad esempio, se c’è una notevole differenza tra i redditi, il genitore più ricco provvede in misura maggiore (al 60%, 70% o all’80% alle volte anche al 100%) rispetto all’altro genitore.

Come funziona in concreto?

Di solito un genitore anticipa la spesa, pagandola per intero, e poi si fa rimborsare la quota dovuta dall’altro genitore.

In quasi tutti i tribunali sono stati adottati documenti operativi, chiamati protocolli sulle spese straordinarie,  nei quali sono indicate le modalità concrete per la richiesta di rimborso: ad esempio, è stabilito che la richiesta va fatta  per iscritto allegando la documentazione di spesa e che il rimborso dev’essere effettuato entro un termine prestabilito (generalmente, entro 15 giorni dalla richiesta).

Il limite dei protocolli è che valgono solo per la zona di competenza territoriale (chiamata “circondario”) del tribunale in cui sono stati emessi, con la conseguenza che spostandosi anche di pochi chilometri (da Bologna a Ferrara, ad esempio) le regole cambiano sensibilmente.

Le spese straordinarie devono essere concordate dei genitori?

In linea generale, se è stato disposto l’affidamento condiviso si presume che i genitori siano in grado di portare avanti assieme un progetto educativo comune e, pertanto, che siano in grado di prendere assieme le decisioni migliori nell’interesse dei figli. La decisione alla base di una spesa, dunque, andrebbe sempre concordata.

Ma nella realtà non è sempre così. Specialmente nelle vicende familiari molto conflittuali succede che non sia sempre possibile concordare ogni singola spesa.

Se i genitori non si mettono d’accordo?

La Corte di Cassazione ha dettato alcune regole, stabilendo che alcune voci di spesa sono comunque dovute da entrambi i genitori, anche se decise da uno solo, ma nei tribunali non c’è uniformità di vedute.

Indubbiamente, ci sono alcune voci di spesa che non debbono necessariamente essere concordate dai genitori: si tratta di spese che non sono discutibili e che vanno in ogni caso pagate. Si pensi alle spese per i libri scolastici o l’abbonamento ai mezzi pubblici o l’assicurazione scolastica. Sono spese in qualche modo necessarie, che si considerano di per sé rispondenti all’interesse dei figli.

Sulle altre spese, invece, vengono in aiuto i protocolli adottati nei tribunali. Alcuni protocolli indicano espressamente quali tipi di spese debbano essere concordate e quali no, altri fissano un tetto massimo di spesa mensile, oltre il quale, a prescindere dalla tipologia di spesa, è in ogni caso necessario l’assenso di entrambi i genitori.

Cosa succede se l’altro genitore non paga?

Il genitore che ha anticipato la spesa ha diritto ad ottenere il rimborso della quota dovuta dall’altro genitore.

La giurisprudenza prevalente ha finora sostenuto che per poter chiedere il rimborso delle spese straordinarie non è sufficiente il provvedimento di separazione, divorzio o  comunque il provvedimento che regola il mantenimento dei figli, ma è necessario un ulteriore passaggio davanti al giudice.

Finora, serviva il decreto ingiuntivo

In concreto, per ottenere il pagamento delle spese straordinarie anticipate non basta la sentenza di separazione  o di divorzio o il decreto che disciplina il mantenimento dei figli, ma bisogna rivolgersi nuovamente al giudice, chiedendo l’emissione di una ingiunzione di pagamento (decreto ingiuntivo) e solo con questo nuovo provvedimento si può agire con il recupero forzato del credito mediante il pignoramento del conto corrente o dello stipendio, ad esempio.

Lo scopo di questo secondo passaggio davanti al giudice è tutelare la posizione del genitore che deve pagare, facendo in modo che le spese siano vagliate dall’autorità giudiziaria chiamata a  verificare che la richiesta di rimborso sia fondata, cioè che le spese siano state effettivamente sostenute nell’interesse dei figli.

Questa procedura però allunga notevolmente i tempi del recupero del credito, a danno del genitore che ha anticipato le spese. Il decreto ingiuntivo infatti può essere opposto, e ciò dà avvio ad una vera e propria causa, con la conseguenza che  il rimborso rimane sospeso, congelato fino alla fine della causa. E alle volte accade che l’opposizione venga avviata senza un reale fondamento giuridico, ma solo al fine di ritardare il più possibile il pagamento.

Ora la Cassazione sembra aver cambiato rotta: per semplificare l’iter del rimborso delle spese straordinarie non  pagate ha stabilito che la sentenza di separazione, divorzio o che regola il mantenimento dei figli è sufficiente e non serve più tornare in tribunale.

Cosa cambia con la recente decisione della Cassazione?

La recentissima decisione della Corte di Cassazione apre la strada ad una nuova modalità di rimborso, più veloce per chi ha anticipato la spesa e comunque tutelante per chi deve pagare.

Da un lato, il genitore che ha anticipato al spesa può subito chiedere il rimborso, senza doversi rivolgere nuovamente al giudice: con il provvedimento di separazione o divorzio o il provvedimento che regola il mantenimento dei figli si può predisporre l’atto di precetto con il conteggio delle spese anticipate e notificarlo all’altro genitore assieme alla documentazione delle spese anticipate. Decorsi dieci giorni dalla notifica, in mancanza di pagamento, si può procedere in  via esecutiva, mediante il pignoramento dello stipendio o del conto corrente, ad esempio.

Dall’altro, il genitore che riceve la notifica del precetto ha comunque la possibilità di tutelarsi, se le somme richieste non sono dovute, facendo opposizione al precetto.

Si può concludere che il decreto ingiuntivo d’ora in poi non servirà  più? In realtà è ancora presto per trarre conclusioni. Bisogna attendere le decisioni dei tribunali o un intervento della Cassazione a Sezioni Unite per capire se la modalità indicata nella recente sentenza della Cassazione diventerà quella prevalente.

 

Fonte:  Cass. Civ., Sez. III, sent. 21 dicembre 2021, n. 40992 – Pres. Vivaldi,

Quando vanno disposti gli accertamenti fiscali nel divorzio?

Il giudice del procedimento di divorzio è tenuto ad effettuare gli accertamenti dei redditi mediante indagini di polizia tributaria se le prove acquisite durante l’istruttoria non sono sufficienti a dimostrare l’effettiva situazione economica degli ex coniugi.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in una recentissima decisione in materia di assegno divorzile.

Il Caso

La vicenda giunta all’esame della Cassazione riguardava un ricorso presentato da una ex moglie alla quale era stato riconosciuto dal Tribunale in primo grado un assegno post matrimoniale di 500,00 euro, poi ridotto a 250,00 euro dalla Corte d’appello.

La ricorrente lamentava che i giudici dell’appello avevano determinato il reddito del coniuge soltanto sulla base della documentazione che il marito aveva fornito in modo incompleto e senza tener conto degli ordini di esibizione di documentazione integrativa disposti dal giudice.

L’ex moglie aveva svolto specifiche contestazioni sui redditi dichiarati dal marito ed aveva indicato ai giudici che il coniuge svolgeva un’attività imprenditoriale non dichiarata fiscalmente, ma pubblicizzata anche con uno specifico biglietto da visita e riscontrabile nei suoi movimenti bancari.

L’ex moglie sosteneva che, a fronte di quanto rappresentato in ordine all’attività del marito, i giudici dell’appello avrebbero dovuto provvedere all’accertamento dei redditi del marito mediante indagini di polizia tributaria prima di ricavare, in contrasto con la sentenza di primo grado, un reddito inferiore a quello accertato dal Tribunale e tale da legittimare la riduzione dell’assegno disposto in prima istanza. Gli accertamenti, invece, non erano stati disposti.

La decisione

La Cassazione ha accolto il ricorso dell’ex moglie, affermando che il giudice del divorzio può esimersi dal disporre gli accertamenti fiscali soltanto quando abbia raggiunto, in altro modo, la prova dei redditi ; diversamente, è tenuto ad approfondire la situazione mediante indagini di polizia tributaria.

Il potere del giudice di disporre indagini sui redditi e sui patrimonio dei coniugi rientra nella discrezionalità del giudice, può essere attivato dal magistrato anche d’ufficio e non è vincolato all’istanza di parte.

Qualora gli accertamenti fiscali vengano richiesti dalla parte, il giudice può rigettare la richiesta, purché il rigetto sia correlabile ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza delle prove acquisite.

Nella vicenda oggetto di causa, questa valutazione di sufficienza delle prove raccolte e di non necessità delle indagini fiscali non era stata compiuta e dunque la Corte di Cassazione, accogliendo la domanda dell’ex moglie, ha rinviato il caso ai giudici di merito per una nuova pronuncia.

Fonte: Cassazione civile ordinanza del 14 settembre 2017, n. 21359.

Assegno di separazione e assegno di divorzio: i presupposti sono diversi

Dopo il clamore mediatico suscitato dalla recentissima sentenza in materia di assegno divorzile, la Cassazione ha chiarito che l’assegno per il coniuge nella separazione e l’assegno divorzile sono sorretti da presupposti diversi.

L’assegno di mantenimento fissato nella separazione, infatti, è finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di conservare il tenore di vita di cui godeva quando era ancora convivente con l’altro.

 I coniugi separati sono ancora sposati

Nella separazione, infatti, il vincolo del matrimonio non viene meno, ma è soltanto allentato: sono sospesi – rilevano i giudici della Cassazione – soltanto i doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli obblighi economici rimangono, assumendo forme diverse in considerazione della nuova situazione di fatto che vede i coniugi vivere separati.

Se durante la convivenza matrimoniale ciascuno dei coniugi provvede al mantenimento della famiglia in proporzione alle sue condizioni economiche, nella separazione coniugale il coniuge più abbiente deve versare all’altro un assegno periodico, proporzionato ai redditi, per contribuire al suo mantenimento.

La solidarietà economica viene meno solo con l’addebito della separazione

Nella separazione, dunque, permane il dovere di contribuire al mantenimento del coniuge meno abbiente.
Questo dovere di solidarietà economica viene meno soltanto in caso di addebito della separazione: se il coniuge economicamente più debole viene riconosciuto responsabile della crisi coniugale, per aver violato i doveri coniugali, perde il diritto all’assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento va calcolato secondo il tenore di vita

L’obbligo di assistenza materiale tra i coniugi separati si realizza mediante il riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente e che non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva, assieme all’altro, prima della separazione.

Nel quantificare l’assegno di mantenimento del coniuge separato si considera il tenore di vita consentito dalle risorse economiche di entrambi i coniugi: la prima verifica da fare è volta ad accertare se il coniuge che richiede l’assegno disponga di mezzi economici tali da permettergli o meno di conservare quel tenore di vita.

Per far ciò, il giudice dovrà tenere in considerazione la condizione economica complessiva del richiedente (i redditi, le proprietà, la disponibilità della casa coniugale, ecc.).

Una volta accertato che il coniuge che richiede l’assegno non ha mezzi adeguati a conservare il precedente tenore di vita, si procede alla quantificazione dell’assegno mediante una valutazione comparativa delle condizioni economiche di ciascun coniuge, nonché di particolari elementi quali, ad esempio, la durata della convivenza.

L’assegno di divorzio è diverso

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato è cosa ben diversa dall’assegno divorzile: i presupposti e la normativa sono distinti e autonomi.

L’elemento essenziale di differenziazione è che con il divorzio il vincolo matrimoniale viene meno e con esso anche i doveri matrimoniali, incluso il vincolo di solidarietà coniugale, come recentemente affermato dalla sentenza n. 11504/2017 della Cassazione.

 

Fonte: sentenza Cassazione civile n. 12196 del 16.5.2017

 

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Quando l’ex non paga l’assegno: cosa fare?

In caso di mancato pagamento del contributo mensile per il mantenimento del coniuge o dei figli, così come in caso di mancato pagamento dell’assegno di divorzio, diversi sono gli strumenti attivabili.

 

Come si recuperano gli arretrati?

Per recuperare delle mensilità non versate è possibile agire mediante l’esecuzione forzata, con la notifica dell’atto di precetto ed il successivo pignoramento dello stipendio o del conto corrente bancario o di altri beni (anche immobili) di proprietà di colui che è tenuto al versamento.

L’azione esecutiva può essere avviata quando la misura dell’assegno è stabilita in un provvedimento del giudice (ordinanza presidenziale nella separazione o nel divorzio, sentenza di separazione o divorzio, decreto relativo al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, decreto di modifica delle condizioni di separazione o divorzio) o in un accordo di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio esito di negoziazione assistita.

In mancanza di un provvedimento del giudice o dell’accordo negoziato (che costituiscono “titolo esecutivo”) non è consentito intraprendere l’esecuzione forzata.

 

E gli assegni futuri?

La legge consente, quando vi sia una condizione di inadempimento protratta nel tempo, di ottenere il versamento diretto del contributo mensile dal datore di lavoro dell’ex.

La procedura è regolata dall’art. 156 c.c. attivabile sia per l’assegno stabilito nella separazione, nel divorzio o nelle modifiche della separazione e del divorzio, sia per l’assegno relativo al mantenimento dei figli nati da persone non sposate previsto da un provvedimento giudiziale.

La domanda di versamento diretto va fatta al giudice, il quale, sentite le parti interessate, disporrà con provvedimento che il mensile venga erogato direttamente dal datore di lavoro (o dall’INPS o da altri enti previdenziali nel caso in cui l’ex sia pensionato).

 

Nel divorzio è più facile ottenere il versamento diretto

Nel caso in cui l’assegno sia stabilito in sede di divorzio si può ottenere il pagamento diretto dal datore di lavoro (o dagli enti pensionistici) in modo ancora più semplice e veloce, poichè non è necessario il passaggio in tribunale.

L’art. 8 della legge sul divorzio (legge n. 898/70) stabilisce, infatti, che per ottenere il versamento dell’assegno direttamente dal datore di lavoro e, più in generale, da tutti coloro che sono “tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato” (in senso lato, anche i conduttori di immobili di proprietà dell’ex) sia sufficiente la notifica al terzo tenuto alla prestazione periodica del provvedimento giudiziale, unitamente all’invito a corrispondere le somme dovute.

La notifica al terzo dev’essere preceduta da una comunicazione di messa in mora inviata all’ex coniuge – debitore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Decorsi trenta giorni senza che il debitore abbia provveduto al pagamento, si può procedere con la notifica diretta al terzo.

A maggior tutela della parte economicamente più debole, la legge sul divorzio prevede che il coniuge che deve percepire l’assegno abbia “azione diretta ed esecutiva” nei confronti del datore di lavoro dell’ex, o dell’ente pensionistico: il che significa che se il terzo non adempie, il coniuge potrà procedere con l’esecuzione forzata direttamente nei suoi confronti.

 

Si può prevenire il mancato versamento degli alimenti?

In via preventiva, di fronte al rischio che il coniuge non versi gli alimenti, si può chiedere al tribunale il sequestro dei beni ai sensi dell’art. 156 c.c. e dell’art. 8 della legge sul divorzio. Si tratta di un sequestro conservativo, finalizzato cioè ad evitare che l’ex coniuge o l’ex compagni si “liberino” dei beni di loro proprietà, cedendoli a terzi.

E’ inoltre possibile iscrivere ipoteca sugli immobili di proprietà dell’ex. Per procedere in questo senso è necessario avere già a disposizione un provvedimento che stabilisca l’ammontare dell’assegno (ordinanza presidenziale nella separazione o nel divorzio, sentenza di separazione o divorzio, decreto relativo al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, decreto di modifica delle condizioni di separazione o divorzio) o un accordo privato di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio ottenuto mediante negoziazione assistita.

 

Di fronte al mancato pagamento dell’assegno si può fare denuncia penale?

Certamente è possibile agire anche in sede penale. Contribuire al mantenimento della moglie, anche divorziata, e dei figli è un obbligo che, se violato, espone al rischio di sanzioni penali ai sensi degli art. 570 (violazione degli obblighi di assistenza familiare) e 388 (violazione dolosa di provvedimento dell’autorità giudiziaria) del codice penale.

 

Quando l’ex non versa il mantenimento, paga lo Stato?

Il punto di domanda è d’obbligo. Con la Legge di Stabilità 2016 è stata disposta la costituzione, in via sperimentale, di un Fondo di Solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno in caso di mancato versamento dell’assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge.

Ad oggi l’accesso al Fondo non è praticabile, in quanto non sono ancora stati emanati decreti ministeriali di attuazione della norma, nonostante sia ampiamente decorso il termine ( 31 gennaio 2016) fissato nella Legge per la loro adozione.

Per ora, dunque, possiamo soltanto anticipare come funzionerà, sulla base di quanto previsto nella Legge di Stabilità.

Potrà accedere al Fondo il coniuge separato

a) titolare di un assegno di mantenimento che non venga versato dall’altro coniuge, e

b) che si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al mantenimento proprio e dei figli conviventi minorenni o maggiorenni portatori di handicap grave.

L’avente diritto dovrà depositare presso il Tribunale di residenza una specifica domanda per ottenere l’anticipazione da parte dello Stato delle somme non percepite.

E’ presumibile – lo chiariranno meglio i decreti attuativi – che alla domanda debba essere allagata la documentazione attestante la sussistenza del diritto (verbale di separazione consensuale e decreto di omologa, sentenza, accordo di negoziazione assistita), la prova dell’inadempimento (quale una lettera di messa in mora o un atto di precetto) e la dimostrazione  dello stato di bisogno e dell’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento ed a quello dei figli (dichiarazioni fiscali, modelli ISEE, ecc.).

Il Tribunale, entro 30 giorni, dovrà pronunciarsi sulla domanda, emettendo un decreto di accoglimento, qualora sussistano i requisiti,  o di rigetto, nel caso in cui non ravvisi la sussistenza dei presupposti per l’accesso al Fondo. Il decreto di rigetto è per legge non impugnabile.

Il decreto di accoglimento verrà trasmesso al  Ministero della Giustizia ai fini della corresponsione delle somme richieste. Il Ministero potrà successivamente rivalersi sul coniuge inadempiente per il recupero degli importi erogati.

Il nuovo istituto risponde all’esigenza di fronteggiare in modo concreto le difficoltà economiche che, sempre più frequentemente, conseguono alla separazione personale.

La formulazione della norma presenta, tuttavia, alcuni profili critici sui quali è opportuno soffermarsi.

Anzitutto, non è previsto l’accesso al Fondo di Solidarietà per il coniuge divorziato: questa esclusione, di fatto, crea una ingiustificata ed illegittima disparità di trattamento tra separati e divorziati. Ed ugualmente discriminatoria, considerato che presupposto per l’accesso al Fondo è la convivenza del coniuge separato con i figli minori o maggiorenni portatori di handicap grave,  è l’assenza di tutela per i figli nati da unioni more uxorio.

Ed inoltre, la norma di presta il fianco a possibili abusi e frodi, non potendosi escludere che qualche coniuge si accordi per ottenere una sorta di sussidio, con l’impossibilità per lo Stato di recuperare le somme anticipate se il coniuge obbligato è nullatenente.
Il necessario passaggio in Tribunale, poi, contrasta nettamente con le ultime tendenze del legislatore orientato alla deflazione del contenzioso.

Insomma, l’idea è buona, ma il risultato – come purtroppo spesso accade quando manca un approccio sistematico alla risoluzione di una questione – non è ancora soddisfacente.

Fonte: Legge n. 208 del 28.12.2015, artt. 414 -416.