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Gli accordi economici della separazione vincolano il giudice del divorzio?

Separazione e divorzio sono due procedimenti distinti. Il giudice del divorzio decide autonomamente e non è vincolato da quanto stabilito nella separazione.

Se, ad esempio, nella separazione si prevede un assegno vita natural durante per la moglie. L’assegno verrà conservato anche al momento del divorzio? Dipende.

Il giudice potrebbe confermarlo, ma non vi è alcuna certezza.

Che peso hanno, allora, le regole economiche fissate nella separazione?

Indubbiamente le regole economiche definite nella separazione rappresentano un punto di riferimento dal quale il giudice del divorzio non può prescindere, ma non è tenuto necessariamente a confermarle. Il giudice infatti dovrà valutare la situazione presente in quel momento e decidere tenendo conto dei seguenti principi:

1 – nei procedimenti di diritto di famiglia il tribunale decide “rebus sic stantibus”.

Il giudice, cioè, decide tenendo conto della situazione in essere in quel momento.

Tra separazione e divorzio passa un po’ di tempo e redditi, condizione lavorativa e abitativa dei coniugi possono essere nel frattempo cambiati. Il giudice del divorzio deve valutare la situazione attuale e sulla base di quella può confermare o modificare le regole economiche definite nella separazione.

Se non è cambiato nulla, il giudice tendenzialmente confermerà l’assegno stabilito nella separazione.

Se invece è cambiata la condizione di entrambi o di uno solo dei due, è probabile che regole verranno riviste.

2 – l’assegno di divorzio è fondato su parametri diversi da quelli dell’assegno di mantenimento del coniuge nella separazione

Più esattamente, l’assegno di divorzio è finalizzato ad assicurare i mezzi di sostentamento al coniuge meno abbiente, a riequilibrare le condizioni economiche dei coniugi e a compensare economicamente il coniuge che ha sacrificato le sue aspirazioni lavorative per dedicarsi alla famiglia. L’assegno di mantenimento è invece finalizzato a consentire al coniuge di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Se per ottenere l’assegno di mantenimento nella separazione è sufficiente dimostrare un dislivello tra i redditi dei coniugi, la prova dei presupposti per l’assegno divorzile è un po’ più complicata. Non basta il dislivello tra i redditi dei coniugi, ma serve dimostrare che questo dislivello è stato causato dalle scelte fatte assieme dai coniugi durante il matrimonio e che uno dei due si è sacrificato per consentire all’altro di migliorare la propria condizione professionale ed economica.

3 – il nostro ordinamento vieta gli accordi tesi a regolare anticipatamente l’assetto del futuro divorzio

Si tratta dei “famosi” accordi prematrimoniali, vale a dire gli accordi con cui già prima del matrimonio si regola l’assetto della separazione o del divorzio, stabilendo, ad esempio, l’ammontare dell’assegno per il coniuge meno ricco, a chi andrà la casa, come verranno ripartiti i beni comuni, ecc. Consentiti da alcuni ordinamenti esteri, gli accordi prematrimoniali sono banditi in Italia.

Afferma la Cassazione: gli accordi con cui i coniugi regolano prima o durante il matrimonio o in sede di separazione le condizioni economiche del divorzio sono nulli, cioè del tutto invalidi e inefficaci.

La ragione di questa rigida posizione? Tutelare il coniuge più debole economicamente, cioè quello più esposto al rischio di trovarsi costretto a rinunciare all’assegno pur di ottenere in breve tempo il divorzio.

Attenzione dunque

Stabilire nella separazione l’assetto economico del futuro divorzio non dà alcuna certezza e non garantisce che tale assetto verrà effettivamente confermato al momento del divorzio. Basta che uno dei due coniugi cambi idea che tutto verrà messo in discussione.

E che non vi siano certezze è confermato anche dal caso, citato sopra, dell’assegno vita natural durante per la moglie.

L’assegno vita natural durante

La vicenda è questa:  nella separazione consensuale marito e moglie avevano diviso anche il patrimonio comune e si erano accordati nel senso che  il marito avrebbe versato alla moglie un assegno mensile per tutta la vita della medesima.

Arrivati al momento del divorzio, il marito cambia idea e sostiene di non doverle più nulla. Si va in causa.

Il tribunale conferma l’assegno per la moglie. Il marito impugna la decisione e la corte d’appello gli dà ragione: l’assegno non è dovuto, perchè nel frattempo le cose sono cambiate e l’accordo di separazione non può vincolare il giudice del divorzio.

La moglie ricorre in Cassazione e la Cassazione ribadisce il principio generale per cui gli accordi preventivi sul divorzio sono nulli, e dunque non possono vincolare automaticamente il giudice del divorzio, ma boccia comunque la decisione della corte d’appello. La Cassazione evidenzia, infatti, come nella particolare vicenda l’assegno per la moglie è conseguente anche alla divisione del patrimonio comune. Pertanto rinvia la causa alla Corte d’Appello per una rivalutazione del caso.

Si tratta, in effetti, di un caso molto particolare, nel quale l’assegno fissato nella separazione non  ha solo la funzione di assegno di mantenimento e futuro assegno di divorzio, ma rappresenta una sorta di rendita vitalizia.

La soluzione pertanto potrebbe essere anche di conferma dell’assegno, se l’assegno verrà qualificato come costituzione di una rendita (e non come assegno per il coniuge).

La decisione della Cassazione è contenuta nell’ordinanza n. 11012 del 26 aprile scorso. Vedremo cosa decideranno i giudici del rinvio.

 

Si può versare l’assegno di mantenimento direttamente al figlio maggiorenne?

La domanda non ha una risposta univoca.

Occorre prima di tutto tenere distinte due ipotesi fondamentali: il caso in cui la sentenza di separazione sentenza prevede il versamento diretto dell’assegno al figlio e il caso in cui la sentenza stabilisce che il pagamento del contributo per il figlio va fatto in favore del genitore convivente con il figlio (che di solito è la madre).

Esaminiamole nello specifico.

Se nella separazione è previsto espressamente il versamento diretto al figlio

Può accadere che, nel regolare la loro separazione, i coniugi si accordino prevedendo che al compimento della maggiore età del figlio il padre verserà l’assegno mensile, o una parte di esso, direttamente al figlio. In questo caso, una volta che il figlio avrà compiuto diciott’anni, il padre potrà tranquillamente versare l’assegno al figlio.

Il genitore separato, pertanto, può versare direttamente al figlio maggiorenne il contributo al suo mantenimento se questa modalità è prevista nei provvedimenti che regolano la separazione o il divorzio o il mantenimento del figlio di genitori non sposati.

Se nella separazione è previsto che l’assegno per il figlio va versato alla madre

Se invece, nei provvedimenti della separazione è previsto che l’assegno debba essere versato al genitore con lui convivente (di solito, la madre) si possono presentare due diversi scenari:

– la madre non è d’accordo per il versamento diretto al figlio:

In assenza di accordo tra i genitori, non è possibile il versamento diretto al figlio.

Infatti, il genitore convivente con il figlio è titolare del diritto di ricevere l’assegno e nel caso in cui non riceva nulla può agire in via esecutiva (con il pignoramento del conto corrente o dello stipendio, ad esempio) per recuperare le mensilità che non gli sono state corrisposte. E questo diritto può essere fatto valere anche nell’ipotesi in cui l’altro genitore abbia già versato le stesse mensilità dell’assegno direttamente al figlio.

– i genitori sono entrambi d’accordo per il versamento diretto al figlio:

Se invece i genitori separati si accordano tra di loro e convengono sul versamento diretto al figlio, occorre comunque fare molta attenzione.

Le decisioni giudiziali su questo tema non hanno, infatti, un orientamento univoco.

Alcune sentenze hanno ritenuto valido l’accordo tra i genitori separati che prevedeva il versamento diretto dell’assegno al figlio, così derogando le prescrizioni della loro separazione che stabilivano che il pagamento dell’assegno per il figlio andasse fatto mediante bonifico sul conto corrente della madre.

Tuttavia, non mancano decisioni che negano validità all’accordo tra i genitori.

In questo senso si è espressa recentemente la Corte di Cassazione con l’ordinanza 9700/2021 pubblicata lo scorso 13 aprile. Più in particolare, in questa ordinanza la Cassazione sostiene che l’accordo tra i genitori non è sufficiente ad autorizzare il padre a versare l’assegno direttamente al figlio maggiorenne, in quanto l’individuazione della madre quale beneficiario del versamento effettuata nella sentenza di separazione risponde ad un interesse superiore alla volontà delle parti. Interesse che non è modificabile mediante un semplice accordo privato, non ratificato dal tribunale.

In estrema sintesi: quanto stabilito nella sentenza prevale sulle successive manifestazioni di volontà dei genitori.

Pertanto, secondo questo orientamento, se la madre dapprima autorizza il versamento diretto al figlio, ma poi cambia idea e pretende il pagamento delle mensilità che non ha ricevuto, vi è il serio rischio di dover pagare due volte, una al figlio e l’altra alla madre.

Che cosa fare allora?

Per essere sicuri di poter pagare l’assegno direttamente al figlio maggiorenne ed evitare problemi serve un nuovo provvedimento con il medesimo peso giuridico della sentenza di separazione (o di divorzio o del decreto che regola i rapporti con il figlio nato da genitori non sposati).
In altre parole: è necessario modificare ufficialmente le regole vigenti sulle modalità di versamento dell’assegno, rivolgendosi nuovamente al tribunale oppure ricorrendo alla procedura della negoziazione assistita.

Fonte: Cassazione ordinanza n. 9700 del 13.4.2021

Mantenimento dei figli maggiorenni: il nuovo criterio è l’autoresponsabilità

Il dovere di mantenere i figli costituisce uno dei principali obblighi dei genitori e continua anche dopo raggiungimento della maggiore età, fino a che il figlio non diventa economicamente autosufficiente, cioè fino a che non è in grado di provvedere a sè stesso.

Ma cosa si intende esattamente per indipendenza economica?

Il figlio è economicamente indipendente quando è in grado di mantenersi, ha trovato un lavoro stabile e raggiunto uno standard di vita adeguato agli studi svolti, alla formazione e alle proprie aspirazioni professionali. Si tratta di una condizione che al giorno d’oggi è piuttosto difficile da raggiungere.

E se in passato i giudici sono stati più morbidi, riconoscendo il diritto ad essere mantenuti anche a figli un po’ avanti negli anni, nell’ultimo anno, invece, diverse sentenze dei giudici di merito e della Corte di Cassazione hanno adeguato il contenuto del dovere di mantenimento dei figli all’evoluzione dei costumi sociali e del mondo del lavoro.

Trovare un lavoro è un dovere

Si è così affermato il principio di autoresponsabilità: il figlio non può pretendere di essere mantenuto dai genitori fino a che non trova un lavoro di proprio gradimento, ma deve attivarsi per ricercare fattivamente un posto di lavoro, qualora non intenda proseguire gli studi.

Più in particolare, con la sentenza 1783 del 2020 la Cassazione ha stabilito che il figlio che ha superato i diciott’anni e ha deciso di non studiare, ha l’obbligo di trovarsi un’occupazione, senza aspettare di trovare il lavoro dei suoi sogni.

Si tratta di un cambiamento di rotta importante, che tiene conto dei cambiamenti sociali in atto e della recessione economica che stiamo vivendo.

Però non mancano le eccezioni

Questa interpretazione non è però univoca. La stessa Corte di Cassazione, infatti,  in un’altra decisione (sentenza n. 19077 del 2020) ha ritenuto che il figlio di genitori ricchi, anche se è maggiorenne e capace di lavorare, ma non è in grado di raggiungere livelli reddituali analoghi a quelli garantiti dai genitori, ha diritto comunque ad un contributo di mantenimento che gli consente di conservare lo stesso tenore di vita della famiglia.

Assegnazione della casa familiare e genitori in conflitto

Nella decisione sull’assegnazione della casa coniugale nella separazione, il giudice deve tener conto esclusivamente dell’interesse dei figli. Pertanto, non può disporre la co-assegnazione dell’immobile, previa suddivisone in due distinte unità abitative, qualora il conflitto tra i genitori sia particolarmente acceso e la vicinanza abitativa dei medesimi possa recare turbativa alla crescita equilibrata e serena dei figli minori.

La casa familiare può essere assegnata soltanto in presenza di figli

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, e non a compensare un eventuale divario tra le posizioni economiche dei coniugi.

Il provvedimento di assegnazione ha lo scopo di proteggere i figli, garantendo loro di conservare una continuità, quando meno sotto il profilo abitativo e delle abitudini, di fronte alla disgregazione del nucleo familiare.

L’assegnazione, dunque, va effettuata in favore del coniuge convivente con i figli. In mancanza di figli minori o di figli maggiorenni non autonomi, il giudice non può assegnare la casa coniugale: l’immobile resterà al coniuge che ne è proprietario; se l’immobile è in comproprietà ai due coniugi, si applicheranno le ordinarie regole della comunione.

Se i genitori sono in conflitto, non si può coassegnare la casa coniugale

In una vicenda oggetto di un recente provvedimento della Corte di Cassazione, il marito in sede di separazione aveva chiesto l’assegnazione di una parte dell’ex casa coniugale, sostenendo che i figli minori avrebbero ottenuto un grande beneficio dalla vicinanza con il padre, al quale erano uniti da un forte legame affettivo, e che gli interventi di divisione della casa erano facili da realizzare e non eccessivamente costosi.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, motivando tale decisione con la sussistenza di un’elevata conflittualità tra i coniugi: per i giudici la litigiosità dei coniugi rendeva la coassegnazione contraria all’interesse dei figli, specie in mancanza di un accordo tra le parti circa la facile divisibilità dei vani e considerato che la moglie, nel frattempo, aveva intrapreso una convivenza con un altro uomo.

La sentenza, confermata in appello, non è stata modificata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto inammissibile per ragioni tecniche il ricorso presentato dal marito.

 

Fonte: Cass. Civ. ordinanza 10 novembre 2017, n. 26709.

Entro quanto tempo si può chiedere il disconoscimento di paternità?

La legge prevede precisi termini di decadenza per l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato durante il matrimonio: la madre può proporre l’azione di disconoscimento di paternità entro sei mesi dalla nascita del figlio; il marito entro un anno.

L’azione è imprescrittibile – vale a dire non è soggetta a nessun tipo di limitazione temporale – soltanto per quanto riguarda il figlio: in altre parole, soltanto il figlio, una volta raggiunta la maggiore età, potrà in qualsiasi momento chiedere il disconoscimento della paternità legale.

Il termine di sei mesi per la madre e di un anno per il marito-padre legale è stato previsto, com’è evidente, a tutela del figlio: l’ordinamento protegge prioritariamente la posizione dei minori, ai quali vuole garantire la certezza dello status e della condizione di figlio, a discapito della verità biologica.

Il termine di un anno per il marito

Il marito può disconoscere la paternità del figlio avuto dalla moglie entro un anno dalla nascita del bambino oppure entro un anno dal momento in cui è venuto a conoscenza della non paternità, ad esempio, perchè il figlio è nato da una relazione extraconiugale della moglie, oppure perché il marito stesso scopre di essere affetto da impotenza a generare).

Una volta decorso questo termine, il figlio non può più essere disconosciuto dal padre legale.

Non basta il sospetto dell’adulterio

La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta sul tema in una decisione relativa ad un caso di adulterio scoperto dal marito a distanza di tempo dalla nascita del figlio.

La Cassazione ha ribadito che il termine di un anno si conteggia dalla data di effettiva conoscenza dell’adulterio, mentre il mero sospetto dell’adulterio non fa decorrere il termine. Spetta al marito che promuove l’azione di disconoscimento fornire la prova del momento in cui egli è venuto a sapere con certezza del tradimento della moglie.

La scoperta dell’adulterio va intesa – sottolinea la Cassazione – non come semplice sospetto, ma come la conoscenza certa di un fatto riferito all’epoca del concepimento e costituito da una vera e propria relazione della moglie con un altro uomo oppure da un incontro idoneo a generare un figlio. Da questa effettiva conoscenza comincia a decorrere il termine di un anno di decadenza dell’azione.

Al contrario, il semplice sospetto del tradimento e della possibile mancanza di paternità non fa decorrere il termine di un anno, come il più contiene il meno, chiariscono i giudici della Cassazione.

Fonte: Cassazione civile, sentenza n. 19732/2017 dell’8 agosto 2017.

Quando vanno disposti gli accertamenti fiscali nel divorzio?

Il giudice del procedimento di divorzio è tenuto ad effettuare gli accertamenti dei redditi mediante indagini di polizia tributaria se le prove acquisite durante l’istruttoria non sono sufficienti a dimostrare l’effettiva situazione economica degli ex coniugi.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in una recentissima decisione in materia di assegno divorzile.

Il Caso

La vicenda giunta all’esame della Cassazione riguardava un ricorso presentato da una ex moglie alla quale era stato riconosciuto dal Tribunale in primo grado un assegno post matrimoniale di 500,00 euro, poi ridotto a 250,00 euro dalla Corte d’appello.

La ricorrente lamentava che i giudici dell’appello avevano determinato il reddito del coniuge soltanto sulla base della documentazione che il marito aveva fornito in modo incompleto e senza tener conto degli ordini di esibizione di documentazione integrativa disposti dal giudice.

L’ex moglie aveva svolto specifiche contestazioni sui redditi dichiarati dal marito ed aveva indicato ai giudici che il coniuge svolgeva un’attività imprenditoriale non dichiarata fiscalmente, ma pubblicizzata anche con uno specifico biglietto da visita e riscontrabile nei suoi movimenti bancari.

L’ex moglie sosteneva che, a fronte di quanto rappresentato in ordine all’attività del marito, i giudici dell’appello avrebbero dovuto provvedere all’accertamento dei redditi del marito mediante indagini di polizia tributaria prima di ricavare, in contrasto con la sentenza di primo grado, un reddito inferiore a quello accertato dal Tribunale e tale da legittimare la riduzione dell’assegno disposto in prima istanza. Gli accertamenti, invece, non erano stati disposti.

La decisione

La Cassazione ha accolto il ricorso dell’ex moglie, affermando che il giudice del divorzio può esimersi dal disporre gli accertamenti fiscali soltanto quando abbia raggiunto, in altro modo, la prova dei redditi ; diversamente, è tenuto ad approfondire la situazione mediante indagini di polizia tributaria.

Il potere del giudice di disporre indagini sui redditi e sui patrimonio dei coniugi rientra nella discrezionalità del giudice, può essere attivato dal magistrato anche d’ufficio e non è vincolato all’istanza di parte.

Qualora gli accertamenti fiscali vengano richiesti dalla parte, il giudice può rigettare la richiesta, purché il rigetto sia correlabile ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza delle prove acquisite.

Nella vicenda oggetto di causa, questa valutazione di sufficienza delle prove raccolte e di non necessità delle indagini fiscali non era stata compiuta e dunque la Corte di Cassazione, accogliendo la domanda dell’ex moglie, ha rinviato il caso ai giudici di merito per una nuova pronuncia.

Fonte: Cassazione civile ordinanza del 14 settembre 2017, n. 21359.

Genitori in conflitto: interviene il coordinatore genitoriale

Nelle separazioni ad alta conflittualità, il coordinatore genitoriale, un professionista esterno alla famiglia e super partes nominato dal giudice, ha la funzione di proteggere i minori dalle possibili conseguenze negative della litigiosità dei genitori, affiancando e supportando i genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’affidamento dei figli.

In una recente sentenza relativa ad un caso di separazione caratterizzata da un’elevata conflittualità tra i coniugi, il Tribunale di Mantova ha disposto che i rapporti genitori-figli vengano monitorati da una figura terza rispetto alla famiglia, il cosiddetto coordinatore genitoriale o educatore professionale, un professionista incaricato di mediare il conflitto e fornire supporto concreto ai genitori.

Più esattamente, al coordinatore genitoriale sono stati assegnati i seguenti compiti:
a) monitorare l’andamento della relazione genitori-figli, mediando i rapporti e fornendo indicazioni correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori;
b) aiutare i genitori nelle decisioni relative ai figli, vigilando sull’osservanza del calendario delle visite con il genitore non convivente ed in caso di disaccordo dei genitori, assumendo le decisioni opportune nell’interesse dei figli.
c) Il coordinatore genitoriale è tenuto, poi, a riferire l’esito del suo operato al Giudice Tutelare.

Il caso

La sentenza in oggetto è stata emessa a conclusione di un procedimento di separazione caratterizzato da un’accesa litigiosità tra i coniugi, genitori di due figli minori.
I coniugi avevano formulato entrambi domanda di addebito della separazione (la moglie sostenendo l’infedeltà del marito, il marito rappresentando il distacco affettivo ed atteggiamenti offensivi della moglie) e nel corso del giudizio avevano manifestato un profondo risentimento reciproco.
La conflittualità tra gli adulti si era proiettata anche nei rapporti con i figli: la moglie aveva più volte impedito gli incontri tra i figli ed il padre (genitore non convivente), frapponendo ostacoli alle visite ed impedendo i contatti telefonici, aveva inoltre interrotto indebitamente la frequentazione tra i minori e la famiglia paterna, come accertato dall’indagine dei Servizi Sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.).
Peraltro, i Servizi Sociali e la C.T.U. avevano verificato, in ordine all’affidamento dei figli, che entrambi i genitori erano in grado di gestire singolarmente i minori e che, pertanto, la modalità di affidamento meglio rispondente all’interesse dei figli era l’affidamento condiviso.

La decisione

A fronte di tale delicata situazione, il Tribunale ha aderito alle conclusioni degli esperti (consulente tecnico e Servizi sociali), disponendo l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori.

La diversa previsione dell’affidamento ad uno solo dei genitori (affidamento esclusivo) richiede, infatti, che risulti dimostrata l’inidoneità educativa o la manifesta carenza dell’altro genitore, cosa non presente nel caso in esame, dato che la consulenza e gli operatori sociali avevano riconosciuto la capacità genitoriale di ciascuno dei coniugi singolarmente.

E’ stato poi previsto l’esercizio separato della responsabilità genitoriale nei tempi in cui i figli sono con ciascuno dei genitori ed è stata disposta la collocazione abitativa dei figli con la madre, dopo aver accertato che i figli avevano instaurato un più solido legame affettivo con essa e che la madre era in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica.

Le condotte ostruzionistiche della madre, consistite nell’aver ostacolato i rapporti padre-figli, sono state sanzionate con la condanna della signora a risarcire i danni sofferti da quest’ultimo in conseguenza del comportamento ostacolante, in attuazione dell’art. 709 ter c.p.c. L’importo del risarcimento è stato fissato, in via equitativa in 1.000,00 euro.

In una vicenda così conflittuale è stata lungimirante la decisione del Tribunale di non lasciare i genitori da soli a gestire l’affidamento condiviso dopo la separazione: seguendo le indicazioni della C.T.U., i giudici di Mantova hanno previsto l’affiancamento di un coordinatore genitoriale, una figura professionale specializzata, con compiti di supporto, mediazione, risoluzione dei conflitti , oltre che di vigilanza sull’attuazione delle regole dettate nella sentenza e di intervento diretto nell’assunzione delle decisioni relative ai figli in caso di disaccordo dei genitori.

Del suo operato il coordinatore genitoriale dovrà riferire al Giudice Tutelare nel termine assegnato dal Tribunale.

 

Fonte: Tribunale di Mantova, sentenza 5.5.2017 (est. Bernardi)

Assegno di separazione e assegno di divorzio: i presupposti sono diversi

Dopo il clamore mediatico suscitato dalla recentissima sentenza in materia di assegno divorzile, la Cassazione ha chiarito che l’assegno per il coniuge nella separazione e l’assegno divorzile sono sorretti da presupposti diversi.

L’assegno di mantenimento fissato nella separazione, infatti, è finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di conservare il tenore di vita di cui godeva quando era ancora convivente con l’altro.

 I coniugi separati sono ancora sposati

Nella separazione, infatti, il vincolo del matrimonio non viene meno, ma è soltanto allentato: sono sospesi – rilevano i giudici della Cassazione – soltanto i doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli obblighi economici rimangono, assumendo forme diverse in considerazione della nuova situazione di fatto che vede i coniugi vivere separati.

Se durante la convivenza matrimoniale ciascuno dei coniugi provvede al mantenimento della famiglia in proporzione alle sue condizioni economiche, nella separazione coniugale il coniuge più abbiente deve versare all’altro un assegno periodico, proporzionato ai redditi, per contribuire al suo mantenimento.

La solidarietà economica viene meno solo con l’addebito della separazione

Nella separazione, dunque, permane il dovere di contribuire al mantenimento del coniuge meno abbiente.
Questo dovere di solidarietà economica viene meno soltanto in caso di addebito della separazione: se il coniuge economicamente più debole viene riconosciuto responsabile della crisi coniugale, per aver violato i doveri coniugali, perde il diritto all’assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento va calcolato secondo il tenore di vita

L’obbligo di assistenza materiale tra i coniugi separati si realizza mediante il riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente e che non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva, assieme all’altro, prima della separazione.

Nel quantificare l’assegno di mantenimento del coniuge separato si considera il tenore di vita consentito dalle risorse economiche di entrambi i coniugi: la prima verifica da fare è volta ad accertare se il coniuge che richiede l’assegno disponga di mezzi economici tali da permettergli o meno di conservare quel tenore di vita.

Per far ciò, il giudice dovrà tenere in considerazione la condizione economica complessiva del richiedente (i redditi, le proprietà, la disponibilità della casa coniugale, ecc.).

Una volta accertato che il coniuge che richiede l’assegno non ha mezzi adeguati a conservare il precedente tenore di vita, si procede alla quantificazione dell’assegno mediante una valutazione comparativa delle condizioni economiche di ciascun coniuge, nonché di particolari elementi quali, ad esempio, la durata della convivenza.

L’assegno di divorzio è diverso

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato è cosa ben diversa dall’assegno divorzile: i presupposti e la normativa sono distinti e autonomi.

L’elemento essenziale di differenziazione è che con il divorzio il vincolo matrimoniale viene meno e con esso anche i doveri matrimoniali, incluso il vincolo di solidarietà coniugale, come recentemente affermato dalla sentenza n. 11504/2017 della Cassazione.

 

Fonte: sentenza Cassazione civile n. 12196 del 16.5.2017

 

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Adozione: quando l’età non conta

Il Tribunale dei minorenni di Bologna con un provvedimento innovativo ha concesso ad una coppia una deroga ai limiti d’età previsti per l’adozione.
Il dato burocratico dell’età è stato ritenuto secondario rispetto alla possibilità di dare ad un bambino in condizione di abbandono la possibilità di crescere in una famiglia.

La vicenda

Marco e Laura (i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy) sono due coniugi italiani, sposati da circa sette anni, Marco ha 65 anni mentre Laura ne ha 51; stante l’impossibilità di avere figli biologici, hanno deciso di “donare” la vita in un modo forse ancora più meraviglioso e, sicuramente, più altruistico: adottando.

L’idoneità all’adozione internazionale

La coppia segue tutti i passaggi necessari: si rivolge al Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna e avvia le pratiche per richiedere l’idoneità all’adozione internazionale; durante la prima fase i coniugi vengono sottoposti a vari colloqui con psicologi ed esperti, al fine di valutare le loro capacità genitoriali e personali. Purtroppo, come a volte succede, il percorso subisce una prima interruzione: il T.M. decreta l’inidoneità dei coniugi all’adozione internazionale.

Marco e Laura però non si perdono d’animo e propongono reclamo avverso il provvedimento. La Corte d’Appello di Bologna accoglie il reclamo e riconosce la piena attitudine di Marco e Laura all’adozione internazionale.

I coniugi hanno finalmente la possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, accogliendo un bambino presso il proprio nucleo.

L’Ente e l’abbinamento con il bambino

A questo punto, infatti, non rimane che rivolgersi ad un Ente accreditato che curi le pratiche dell’abbinamento: quel percorso, cioè, che accosta un bambino straniero in stato di adottabilità con i due futuri nuovi genitori, attraverso una serie di passi che porteranno il minore ad entrare gradualmente nella nuova famiglia adottiva.

La coppia segue tutti i corsi predisposti dall’Ente e nel frattempo vengono presi i contatti con un istituto sudamericano: in pochi mesi si concretizza l’abbinamento e la coppia conosce – tramite fotografie e relazioni – il piccolo Francisco (anche questo nome di fantasia) che, a sua volta, riceve informazioni sulla sua futura famiglia italiana che si sta preparando ad accoglierlo.

L’autorizzazione negata

Resta da ottenere l’autorizzazione da parte della C.A.I. (Commissione per le Adozioni Internazionali) e qui la storia di Marco e Laura affronta un nuovo ostacolo: dalla Commissione, infatti, giunge una notizia “inaspettata”: c’è un problema con l’età di Marco.

Da un controllo sulle età dei genitori e del minore, è risultato che Marco ha 10 anni e 5 mesi più del piccolo Francisco e questo rende inidonea la coppia.

La Legge sull’adozione (legge n. 184/1983), infatti, prevede che tra il figlio minore e i genitori debbano intercorrere più di diciotto anni e meno di quarantacinque anni: tale forbice può essere parametrata anche solo ad uno dei coniugi (se più giovane), purché l’altro non superi di più di dieci anni il limite massimo imposto dalla legge.

Nel caso, poiché Marco ha 65 anni, la coppia avrebbe potuto adottare un bambino dai 10 anni in su, perché in tal modo non si sarebbe oltrepassata la “linea limite” dei 45+10 anni tracciata dalla deroga normativa. Francisco, invece, ha solo 9 anni e mezzo.

Lo sgomento dei coniugi è inevitabile, soprattutto considerati i mesi di attesa e di preparazione.

Il ricorso al Tribunale dei minori

Ma neppure questo nuovo ostacolo ferma Marco e Laura: depositano un nuovo ricorso al Tribunale dei minorenni per chiedere una deroga al limite della differenza d’età, tenendo conto dell’interesse del minore ad essere adottato.

Nel ricorso, i coniugi rappresentano le circostanze specifiche della vicenda: il bambino era di fatto già entrato “in contatto” con i futuri genitori (seppur “solo” attraverso foto e informazioni) ed era stato già“preparato” al suo futuro ingresso in una famiglia che lo avrebbe potuto finalmente crescere serenamente; a questo si aggiungeva poi che il minore appartiene ad una minoranza etnica (afro-colombiana) e tale caratteristica, unita all’età ormai pre-adolescenziale, avrebbe sicuramente compromesso una futura adozione nazionale/internazionale; erano trascorsi già diversi anni dal momento in cui il bambino era stato dichiarato in stato di adottabilità e affidato presso un istituto familiare. Doveva assolutamente considerarsi, infine, come il limite massimo di dieci anni prescritto dalla Legge veniva oltrepassato di soli cinque mesi e questo non poteva certo pregiudicare il benessere di un minore, il quale deve venire sempre posto prima di ogni cosa.

La decisione

L’esito del ricorso non era affatto scontato. I precedenti giurisprudenziali sono pochi ed era il primo caso di questo tipo che il Tribunale per i minori di Bologna si trovava ad affrontare.

Ma tutto si è risolto al meglio: il ricorso è stato accolto in tempi rapidi (due settimane soltanto) e il T.M. ha riconosciuto la deroga per il caso specifico di Marco e Laura, concedendo l’autorizzazione a procedersi con l’adozione di Francisco.

Ciò che il Tribunale ha considerato prioritario è stato salvaguardare l’interesse del minore: per Francisco c’era il concreto rischio di non poter essere più adottato a causa dell’età e degli altri fattori indicati sopra.

Grazie alla sensibilità dei giudici ed alla determinazione di Marco e Laura, Francisco potrà avere un futuro e una famiglia in Italia.

(Avv. Federico Tufano)

Fonte: decreto del T.M. dell’Emilia Romagna dell’11-22 maggio 2017.

Disconoscimento di paternità: la scelta del cognome spetta al figlio

Il padre legale (marito della madre biologica) non può opporsi al disconoscimento di paternità del figlio nato in costanza di matrimonio. Conoscere la verità biologica è un diritto del figlio che non può essere compresso in assenza di concreto pregiudizio per il figlio.

Una volta accertata la paternità biologica in capo ad un’altra persona, soltanto il figlio può decidere se conservare il cognome del marito della madre. Il diritto al nome è, infatti, di un diritto personalissimo che spetta soltanto al diretto interessato,

Questo in estrema sintesi, quanto affermato dai giudici della Corte di Cassazione in una recente sentenza.

Il caso

Il curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale di Milano, aveva proposto azione di disconoscimento della paternità di un minore, adolescente, nato durante il matrimonio da due persone sposate, ma frutto di una relazione extraconiugale della madre con un’altra persona.

Il marito della madre (padre legale del ragazzo) aveva contestato la richiesta di disconoscimento di paternità promossa dal curatore e si era opposto al cambiamento del cognome del figlio, inevitabile conseguenza del disconoscimento.

Le domande del padre legale erano state rigettate sia in primo grado che in appello, in quanto alla luce delle dichiarazioni testimoniali e dell’esito della consulenza genetica da cui risultava l’incompatibilità biologica tra il minore ed il padre legale, i giudici avevano disconosciuto la paternità.

Il padre aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare l’interesse del minore rispetto all’azione di disconoscimento di paternità che aveva l’effetto di travolgere la vita del ragazzino, minandone la serenità e l’equilibrio, con effetti imprevedibili nel contesto familiare e scolastico. A sostegno, il ricorrente invocava l’art. 30 della Costituzione che stabilisce che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità“.
Per le stesse ragioni, il padre legale sosteneva, inoltre, che il ragazzo avrebbe dovuto conservare il suo cognome, avendolo portato fin dalla nascita.

Il padre legale non può opporsi al disconoscimento

Le istanze del padre legale sono state respinte dalla Corte di Cassazione.

Riguardo al disconoscimento di paternità, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’art. 30 della Costituzione – invocato dal padre – vada inteso nel senso che è stata rimessa al legislatore la scelta delle procedure che permettono di ottenere il disconoscimento di paternità e di fissare le modalità per far valere la paternità naturale tenendo conto dell’ interesse del minore. Una volta valutata l’opportunità dell’accertamento non esiste un potere di vietare l’accertamento della paternità biologica.
Nella vicenda in esame i giudici di primo grado e d’appello avevano svolto un’accurata valutazione dell’interesse del figlio a conoscere la verità biologica, ritenendo che non vi fosse un concreto pericolo per il figlio e che anzi lo stesso avesse diritto di conoscere la verità sulle sue origini.

La più recente evoluzione interpretativa ha accresciuto l’importanza della verità biologica rispetto al dato giuridico, riconoscendone primario rilievo costituzionale.
Affermano i giudici: non si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sonno compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica e il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini. L’importanza della verità biologica è data anche dal fatto che le azioni volte all’accertamento dello status sono imprescrittibili per il figlio.

La discendenza biologica é elemento dell’identità personale la cui tutela é garantita a livello costituzionale. Conoscere la propria identità biologica risponde all’interesse del figlio, che ha diritto alla propria identità personale e all’affermazione d un rapporto di filiazione veridico.

Nella vicenda l’interesse del minore a conoscere la verità era stato ampiamente vagliato, e i giudici avevano ritenuto che la conoscenza della verità avesse un valore positivo per il figlio non contrastato dal rischio di un pregiudizio concreto, considerato che non era in discussione la bontà della relazione con il padre legale e che anche sul padre biologico non poteva essere espresso un giudizio negativo, anche perché aveva mostrato un serio interesse nei confronti del ragazzo.

La scelta del cognome spetta al figlio

Quanto alla scelta del cognome, la Cassazione ha chiarito che il padre legale non ha legittimazione al riguardo. Il diritto al nome é diritto di natura personalissima e pertanto solo il figlio, diretto interessato può decidere se mantenere il vecchio cognome.

 

Fonte: Corte di Cassazione sentenza civile n. 4020/2017 del 15.2.2017