domanda sulla differenza tra separazione giudiziale e consensuale

Differenza tra separazione giudiziale e consensuale

Qual è la differenza tra separazione giudiziale e consensuale?

La separazione consensuale avviene quando marito e moglie decidono assieme l’assetto della loro vita da separati, cioè come regolare i rapporti con i figli, il mantenimento, la casa familiare e la gestione dei beni comuni. In questo caso, i coniugi si recano dal giudice soltanto per far ratificare le condizioni della loro separazione, già previamente concordate. In alternativa, i coniugi possono redigere davanti agli avvocati un accordo di negoziazione assistita,che disciplina la loro separazione consensuale, senza necessità di recarsi in Tribunale.

La separazione giudiziale viene invece scelta da quei coniugi che hanno posizioni divergenti sulle regole della loro separazione. In questo caso, sarà il Tribunale a decidere. Già dopo la prima udienza, il giudice emette dei provvedimenti urgenti con cui vengono disciplinati in via provvisoria i rapporti tra marito e moglie e con i figli.

domanda su coppie di fatto e adozioni

Coppia di fatto e adozioni

Coppia di fatto e adozioni: l’avvocato Barbara D’Angelo risponde

Io e il mio partner siamo una coppia di fatto: possiamo adottare un bambino?

Nel nostro ordinamento, l’adozione di minori è possibile solo se una coppia è coniugata e convivente da almeno tre anni. Tuttavia, l’articolo 44 delle legge 183/1984 sull’adozione riporta alcune specifiche ipotesi che prevedono l’adozione in casi particolari da parte di persona single o coppie non coniugate. Nelle situazioni riportate può essere sufficiente che gli adottanti abbiano un rapporto affettivo stabile con il minore.

Genitori in conflitto sui vaccini obbligatori: il Tribunale può ordinare la vaccinazione?

Quando i genitori sono separati ed i figli minori sono affidati in via condivisa, le decisioni relative ai figli devono essere assunte concordemente dai genitori, proseguendo il progetto educativo comune già avviato quando la famiglia era unita, nell’interesse dei figli.

Può accadere, tuttavia, che i genitori abbiano visioni differenti sulle scelte educative e che non vi sia modo di trovare una linea concorde. In questi casi, è possibile rivolgersi al giudice, il quale assumerà la decisione al posto dei genitori in contrasto, avendo cura di tutelare il migliore interesse dei figli.

L’incapacità dei genitori di esercitare la responsabilità genitoriale in maniera condivisa può riguardare ogni decisione riguardante la crescita, la salute e la formazione dei figli, dalla scelta della scuola, alle terapie mediche, all’educazione religiosa.

Se, in particolare, i genitori separati entrano in conflitto sui vaccini obbligatori per il figlio, dopo il decreto legge n. 73/2017, il giudice ordina la somministrazione delle vaccinazioni obbligatorie ai figli, anche se uno dei genitori è di parere contrario. Questo è ciò che ha stabilito il Tribunale di Milano in una recente decisione.

Il caso: genitori in conflitto sui vaccini obbligatori per i figli

Vediamo ora da vicino l’episodio di due genitori in conflitto sui vaccini obbligatori per i figli. La vicenda è quella di due coniugi, in fase di divorzio, con due figli minori che nella separazione erano stati affidati in via condivisa ad entrambi i genitori.

Nel corso del procedimento di divorzio, la moglie presentava al giudice un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. chiedendo che i figli venissero sottoposti a tutte le profilassi vaccinali obbligatorie previste dal decreto legge 73/2017, convertito nella legge 119 del 2017, oltre che la somministrazione alla figlia della vaccinazione facoltativa antipapilloma virus e ad entrambi i figli delle vaccinazioni facoltative antimeningococco ACWY e antimeningococco B.

La madre riferiva che il padre dei bambini si era avvicinato alla medicina omeopatica in coincidenza con la nascita del figlio secondogenito e che, quindi, si era opposto alle vaccinazioni, ad eccezione dell’antitetanica e dell’antidifterica che, infatti, erano state somministrate al figlio. L’incompletezza della copertura vaccinale obbligatoria dei figli risultava dal certificato vaccinale della ASL di riferimento.

La signora sosteneva che il rifiuto del consenso alle vaccinazioni dei figli da parte del marito rappresentasse un grave inadempimento degli obblighi connessi alla responsabilità genitoriale e che fosse potenzialmente pericoloso per la salute dei bambini. Inoltre, la decisione dell’ex marito costituiva secondo la signora una violazione della legge sulle vaccinazioni obbligatorie.

Il padre dei minori si difendeva sollevando un’eccezione processuale sulla competenza del tribunale a decidere sulla questione (eccezione poi rigettata dal giudice) e sostenendo che la scelta di non vaccinare i bambini era stata a suo tempo condivisa con la madre. Il padre chiedeva, poi, che i figli venissero sottoposti agli esami ematici anticorpali, volti ad accertare l’esistenza di anticorpi già presenti nel sangue a seguito di malattia naturale, circostanza che esonera dall’obbligo di effettuare la vaccinazione.

Cosa prevede la legge in caso di conflitto sui vaccini obbligatori

La decisione del Tribunale di Milano è sorretta da un’attenta analisi della normativa in materia di vaccinazioni obbligatorie.

Innanzitutto, il giudice ha ricordato che l’art. 1 del decreto legge 73/2017 impone che a tutti i minori di età compresa tra 0 e 16 anni vengano somministrati due gruppi di dieci vaccini complessivi. Si tratta, dunque, di un obbligo di legge, la cui violazione comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa da 100 a 500 euro.

Inoltre, la legge prevede l’attivazione, in caso di mancata vaccinazione, di un sistema volto a sensibilizzare i genitori sull’importanza delle vaccinazioni e sull’obbligo vaccinale, ed in particolare prevede che i genitori vengano convocati dall’azienda sanitaria locale per un colloquio al fine di fornire informazioni, sollecitarne l’effettuazione o acquisire elementi di esonero o differimento.

Nella vicenda familiare oggetto della decisione, i genitori erano stati convocati dall’ASL, ma all’incontro il padre non si era presentato.

La normativa prevede l’esonero dall’obbligo vaccinale in caso di avvenuta immunizzazione a seguito di malattia naturale, quando vi sia una certificazione in tal senso del medico curante effettuata secondo specifiche modalità ovvero risultante dagli esiti dell’analisi sierologica. In questi casi, non vi è l’esonero completo dalle vaccinazioni, ma l’adempimento dell’obbligo vaccinale è limitato alla somministrazione di vaccini nei quali sia assente l’antigene della malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.

La normativa sulle vaccinazioni obbligatorie consente l’esonero dalle vaccinazioni soltanto in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta.

La decisione: sì alle vaccinazioni obbligatorie

In considerazione dell’obbligo vaccinale vigente, il tribunale ha deciso, accogliendo la domanda della madre dei minori, che ai bambini vengano somministrate le vaccinazioni obbligatorie non ancora effettuate, con esclusione soltanto di quelle vaccinazioni volte a prevenire malattie per le quali venga accertata l’immunizzazione dei minori a seguito di analisi sierologica.

Il tribunale ha previsto che l’analisi sierologica venga effettuata tempestivamente, presso un ospedale pubblico, a cura della madre ed a spese del padre, stabilendo che qualora venga accertata l’immunizzazione rispetto ad alcune patologie, ai minori debbano essere somministrati vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene della malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.

No alle vaccinazioni facoltative

Di diverso tenore la decisione sulle vaccinazioni facoltative (antipapilloma virus e antimeningococco) richieste della madre: il Tribunale ha stabilito di non accogliere la richiesta della madre dei minori, ritenendo che non vi sia, in questo momento, grave rischio per la salute dei bambini.

Nella decisione relativa alla vaccinazione antipapilloma virus il tribunale ha considerato la giovane età della figlia, mentre nella decisione riguardo alla meningite il tribunale ha ritenuto rilevante la circostanza che la meningite ha attualmente scarsissima diffusione sul territorio nazionale.

Fonte: Tribunale di Milano, IX Sez. civile, ordinanza 9.1.2018 (est. Cattaneo).

Contributo al mantenimento dei figli: le spese straordinarie

L’assegno mensile, di cui abbiamo scritto nel precedente articolo sul contributo di mantenimento, copre il mantenimento ordinario dei figli, vale a dire le spese che sono necessarie al figlio per il sostentamento e per i bisogni ordinari (alimentazione, abbigliamento, spese di vitto ed alloggio, ecc.).

In aggiunta all’assegno mensile si pongono le cosiddette “spese straordinarie“, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura straordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio.

Queste spese straordinarie, per la loro natura e peculiarità, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.

Al riguardo, la legge non specifica quali siano le voci di spesa straordinarie, ma la giurisprudenza della Cassazione ha più volte avuto occasione di precisare che “devono intendersi spese straordinarie quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, esulano dall’ordinario regime di vita dei figli”, chiarendo anche che non possono essere inserite nell’assegno mensile, poichè “la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dalla legge e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonchè recare pregiudizio alla prole, che potrebbe essere privata di cure necessarie o di altri indispensabili apporti; pertanto, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno periodico, deve ritenersi che la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia” (cfr. Cass. civ. n. 9372/2012 e, più di recente, Cass. civ. n. 11894/2015).

Quali sono le “spese straordinarie”?

Manca una classificazione generale delle spese straordinarie: spesso nei provvedimenti giudiziari viene inserita una previsione assai generica che prevede il rimborso delle “spese straordinarie mediche non mutuabili, scolastiche, ludiche, ricreative e sportive“.

L’esame delle pronunce giurisprudenziale conferma che i tribunali non seguono criteri omogenei nella individuazione delle voci di spesa da considerarsi come straordinarie: ad esempio, le spese per cancelleria scolastica, pur essendo “spese scolastiche” sono da alcuni ritenute spese che rientrano nell’assegno mensile, in quanto spese routinarie e prevedibili, da altri spese straordinarie, ulteriori rispetto all’assegno mensile.
Interpretazioni differenti si hanno anche riguardo alle mensa scolastica, che alle volte viene considerata sostitutiva del pasto a casa e dunque inclusa nell’assegno, altre volte “spesa scolastica” e come tale non compresa nell’assegno mensile e da rimborsarsi separatamente.

Anche la nozione di “spese mediche” non è chiara: alcune spese mediche sono in genere comprese nelle spese ordinarie e dunque coperte dall’assegno mensile (ad esempio, l’acquisto di farmaci da banco) altre invece rientrano nelle spese straordinarie (ad esempio, le visite specialistiche, i trattamenti ortodontici, ecc. ).
Che cosa comprendono, poi, le spese ricreative? Sicuramente i corsi di musica o la vacanza all’estero che i figli fanno da soli. Ma comprendono anche la festa di compleanno, il regalo di compleanno per gli amichetti, le ricariche telefoniche?

I dubbi sono molti. E di conseguenza sono molte le occasioni di conflitto tra i genitori separati in relazione al concorso alle spese straordinarie.

Allo scopo di prevenire il contenzioso, la prassi giurisprudenziale ha elaborato una serie di criteri di riferimento, trasfusi nei Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani.
Lo scopo dei Protocolli è sostanzialmente quello di fornire dei criteri oggettivi, al fine di rendere più agevole l’applicazione delle regole fissate nei provvedimenti di separazione, divorzio o di regolamentazione della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio, scongiurando, per quanto possibile, l’insorgere di ulteriori contrasti tra i genitori separati.

Le spese straordinarie devono essere concordate?

Secondo l’orientamento interpretativo tradizionale, le spese straordinarie debbono essere tutte previamente concordate, in quanto si tratta di spese che attengono decisioni relative alla crescita, alla salute, all’educazione ed alla formazione scolastica dei figli, scelte di vita di primaria importanza, sulle quali entrambi i genitori hanno il diritto di esprimere la loro opinione.

Fanno eccezione soltanto le spese mediche urgenti ed indifferibili, le quali, per loro stessa natura, possono prescindere dall’accordo dei genitori, riguardando una situazione di emergenza nella quale prevale in assoluto l’interesse alla salute del figlio.

Non mancano, tuttavia, sentenze che chiariscono che anche le spese scolastiche e le spese mediche non richiedono il previo accordo di entrambi i genitori, atteso che si tratta di spese imprescindibili, come tali ritenute di per sé necessarie alla sana crescita psico-fisica dei figli e rispondenti al loro prioritario interesse.

Le spese straordinarie secondo il Protocollo del Tribunale di Bologna

Da qualche mese il Tribunale di Bologna si è dotato di un nuovo Protocollo sulle spese straordinarie, nel quale sono state specificamente indicate le voci di spesa che devono essere considerate come “spese straordinarie” e, soprattutto, chiarito quali spese debbano essere concordate preventivamente e quali non richiedano invece il preventivo accordo.

Il Protocollo stabilisce innanzitutto quali siano le spese che sono ricomprese nell’assegno mensile, precisando che si tratta delle spese necessarie alla soddisfazione delle esigenze primarie di vita dei figli, ovvero vitto, alloggio, abbigliamento ordinario, mensa scolastica e spese per l’ordinaria cura della persona.
Le altre spese, diverse da quelle specificate sopra, sono considerate tutte spese straordinarie.
Il Protocollo del Tribunale di Bologna specifica che alcune spese straordinarie non devono essere concordate preventivamente, in quanto sono ritenute rispondenti in via generale all’interesse dei figli.
Più esattamente, secondo il Protocollo, non devono essere concordate le seguenti spese:
a) le spese corrispondenti a scelte già condivise dei genitori e dotate della caratteristica della continuità.
A titolo esemplificativo: spese mediche precedute dalla scelta concordata dello specialista, comprese le spese per i trattamenti e i farmaci prescritti; spese scolastiche costituenti conseguenza delle scelte concordate dai genitori in ordine alla frequenza dell’istituto scolastico; spese sportive, precedute dalla scelta concordata dello sport (incluse le spese per l’acquisto delle relative attrezzature e del corredo sportivo); spese ludico-ricreativo-culturali, precedute dalla scelta concordata dell’attività (incluse le spese per l’acquisto delle relative attrezzature). In relazione a queste spese, le quali, com’è evidente, costituiscono la prosecuzione di decisioni già condivise dai genitori prima della separazione, è possibile la revoca da parte di uno dei genitori del consenso già prestato qualora intervenga, a causa o dopo lo scioglimento del rapporto, un cambiamento della condizione economica in senso peggiorativo, che renda la spesa eccessivamente gravosa e non più sostenibile. Il cambiamento dovrà essere dimostrato.
b) campi scuola estivi, baby sitter, pre-scuola e post-scuola, se imposti dalle esigenze lavorative del genitore collocatario e se il genitore non collocatario, anche mediante la rete famigliare di riferimento (nonni, ecc.), non offra tempestive alternative;
c) spese necessarie per il conseguimento della patente di guida;
d) abbonamento ai mezzi di trasporto pubblici;
e) spese scolastiche di iscrizione e dotazione scolastica iniziale, come da indicazione dell’istituto scolastico frequentato; uscite scolastiche senza pernottamento;
f) visite specialistiche prescritte dal medico di base; ticket sanitari e apparecchi dentistici o oculistici, comprese le lenti a contatto, se prescritti; spese mediche aventi carattere d’urgenza.

Tutte le altre spese straordinarie, invece, devono essere concordate tra i genitori.
Al riguardo, il Protocollo del Tribunale di Bologna specifica le modalità di comunicazione della spesa e del consenso, prevedendo che il genitore che propone la spesa debba informare l’altro per iscritto (con raccomandata, fax o e-mail), comunicando tipologia ed entità della spesa. L’altro genitore dovrà comunicare, sempre per iscritto, il proprio assenso o il diniego, motivandone le ragioni. Il mancato riscontro alla comunicazione del genitore richiedente entro trenta giorni, fa scattare la presunzione del consenso. Questa regola ha lo scopo di evitare che uno dei genitori possa sottrarsi alla spesa, semplicemente ignorando la comunicazione inviata dall’altro.

Qual è la percentuale del contributo di ciascuno dei genitori nelle spese straordinarie?

La contribuzione alle spese straordinarie è, dunque, separata rispetto al versamento dell’assegno mensile. Solitamente, viene previsto un riparto delle spese straordinarie al 50% tra i genitori, ma non mancano casi nei quali il contributo alle spese straordinarie è attribuito in misura differenziata a ciascuno dei genitori (a titolo esemplificativo, 70% e 30%) ovvero integralmente a carico di uno solo dei genitori, qualora vi sia una notevole differenza tra le condizioni economiche dei genitori, e ciò in conformità al principio di proporzionalità che sorregge il concorso al mantenimento dei figli.

Quali sono le modalità di rimborso?

Quasi mai nei provvedimenti della separazione, del divorzio o della regolamentazione della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio sono fissate le modalità di rimborso delle spese straordinarie. Ciò è spesso motivo di conflitto tra i genitori.

Ovviamente il rimborso potrà avvenire soltanto dietro esibizione della documentazione che comprova che la spesa sia stata effettivamente sostenuta e la sua concreta entità.

Nel nuovo Protocollo del Tribunale di Bologna sono state indicate in modo dettagliato le modalità di rimborso: il genitore che ha anticipato la spesa deve chiedere il rimborso in prossimità della spesa, allegando la documentazione dell’esborso. E’ stabilito che il rimborso avvenga tempestivamente e non oltre quindici giorni dalla richiesta, salvi diversi accordi tra i genitori.

La documentazione fiscale dovrà essere intestata ai figli, ai fini della corretta deducibilità, al 50% ciascuno in capo ai genitori.

Inoltre, è previsto che gli eventuali rimborsi e/o sussidi disposti dalla Stato e/o da altro ente pubblico o privato per spese scolastiche e/o sanitarie relative alla prole vanno a beneficio di entrambi i genitori nella stessa quota proporzionale di riparto delle spese straordinarie.

Contributo al mantenimento dei figli: l’assegno mensile

Il dovere di mantenimento dei figli è sancito dall’art. 30 della Carta costituzionale (“è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio“) ed ulteriormente specificato dagli artt. 315 bis e 316 bis c.c., come modificati dalla legge 219/2012, con la quale sono state unificate le norme in materia di filiazione, sulla scorta del principio della identità dello stato giuridico dei figli, a prescindere dalla circostanza che siano nati da genitori uniti in matrimonio o meno.

La regola cardine è il principio di proporzionalità.

Più esattamente, il primo comma dell’art. 315 bis c.c. sancisce che “il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni“.

L’art. 316 bis c.c., titolato “Concorso nel mantenimento“, stabilisce al primo comma che “i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo“, specificando, nei successivi commi, che, in caso di insufficienza delle risorse economiche dei genitori, gli ascendenti sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari per provvedere all’obbligazione di mantenimento.

L’obbligo di mantenimento è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che competono ai genitori e che sorgono per il solo fatto della procreazione, dall’aver messo al mondo il figlio. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che si tratta di doveri e obblighi indisponibili, vale a dire che non possono essere derogati per volontà dei soggetti interessati, poiché sono finalizzati al pieno sviluppo della personalità del figlio (cfr. inter multis, Cass. civ. 26.5.2004, n. 10102).

L’interpretazione giurisprudenziale ha inoltre sottolineato che l’obbligo di mantenimento dei figli impone di provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive ecc., ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere.

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione degli oneri di mantenimento dei figli in capo ai genitori è, dunque, il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle rispettive sostanze e dunque ai redditi ed al patrimonio, nonchè alla capacità di lavoro, professionale o casalingo.

Tale principio, acclamato dall’art. 316 bis c.c. già citato, è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito della separazione dei genitori e dell’interruzione della convivenza di fatto.

I parametri di quantificazione dell’assegno mensile.

L’art. 337 ter c.c. da un lato disciplina l’affidamento dei figli, prevedendo come regola generale l’affidamento condiviso del figlio ad entrambi i genitori, dall’altro ribadisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” ed elenca i parametri di riferimento nella quantificazione del contributo mensile per il mantenimento dei figli. Si tratta, più esattamente, dei seguenti parametri:

     1) le attuali esigenze del figlio;

     2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;

     3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

     4) le risorse economiche di entrambi i genitori;

      5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

La norma in esame, inoltre, stabilisce l’automaticità dell’adeguamento ISTAT dell’assegno mensile, derogabile soltanto qualora vengano stabiliti altri parametri dalle parti o dal giudice.

L’assegnazione della casa coniugale e il suo peso economico.

Ulteriore elemento di rilievo economico, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo. Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare dev’essere assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro la conservazione dell’ambiente domestico e di vita nel quale sono vissuti fino alla separazione dei genitori, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

La norma citata stabilisce che dell’assegnazione della casa familiare si debba tenere conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.

In buona sostanza, l’assegnazione dell’ex casa familiare consente ad uno dei genitori di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’immobile e di tutti i mobili e gli arredi ivi presenti, anche se di proprietà esclusiva dell’altro genitore. Ciò ovviamente incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario si realizza un risparmio di spesa (dato che rimane nel domicilio familiare a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per la locazione o l’acquisto di un altro immobile in cui si trasferirà a vivere.

Per altro verso, qualora il genitore collocatario dei figli rinunci all’assegnazione dell’ex casa familiare si realizza un vantaggio economico per l’altro genitore, proprietario dell’immobile, il quale può continuare a fruirne senza dover sostenere ulteriori spese abitative, ed uno svantaggio per il primo genitore, che dovrà farsi carico delle spese necessarie per disporre di una propria sistemazione abitativa.

Non vi sono criteri di calcolo specifici per il mantenimento dei figli, ma parametri indicativi.

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori e il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno mensile. Ed il criterio di correttezza attiene all’interesse primario del figlio e al diritto del medesimo di crescere fruendo di risorse economiche adeguate, oltre che alle proprie esigenze, agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Sulla base dei parametri di legge alcuni Tribunali italiani hanno elaborato dei modelli di calcolo: il Tribunale di Firenze, insieme alla Facoltà di Economia, ha elaborato un Modello per calcolare l’assegno di mantenimento (MoCAM) ed il Tribunale di Monza, ha predisposto nel 2008 delle Tabelle (acquisite quale strumento di riferimento in numerosi tribunali) che riassumono le ipotesi più ricorrenti e le possibili soluzioni con riferimento all’assegno di mantenimento del coniuge e dei figli.

Tali tabelle, in particolare, portano all’individuazione di un criterio di liquidazione indicativo dell’assegno pari ad un terzo del reddito presunto del genitore tenuto al versamento dell’assegno, nell’ipotesi in cui non vi sia stata assegnazione della casa familiare in favore del genitore convivente. L’importo così ottenuto va, poi, modulato, tenendo conto della complessiva situazione patrimoniale delle parti; il reddito è, infatti, soltanto uno dei dati da considerare nella quantificazione dell’assegno mensile.

Il Tribunale di Bologna non ha elaborato sistemi di calcolo tabellari, rimettendo la valutazione alla discrezionalità dei singoli magistrati, ma in generale, dalle decisioni in materia di separazione, divorzio e regolamentazione della responsabilità genitoriale dei figli nati fuori dal matrimonio, si può ricavare ad una proporzione dell’ammontare dell’assegno rispetto ai redditi del genitore tenuto al versamento in linea con i parametri indicati dalle tabelle di Monza.

Fino a quando è dovuto l’assegno mensile di mantenimento?

L’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio tramite assegno mensile non cessa con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma permane anche oltre, fino a che il figlio non abbia raggiunto l’autosufficienza economica.

Il concetto di autosufficienza è, peraltro, un concetto assai relativo che – secondo l’interpretazione della giurisprudenza – si verifica con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e in grado di consentire al figlio un tenore di vita dignitoso, con prospettive concrete, anche in relazione alla propria specializzazione e formazione (da ultimo si veda Cass. civ. 20/12/2017, n. 30540: “Il contributo al mantenimento per il figlio maggiorenne  non cessa automaticamente ma continua fino a che il genitore contribuente non dimostri che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica o che la mancata autonomia dipenda dalla sua colpevole inerzia, intendendosi con ciò, sostanzialmente, l’ingiustificato rifiuto di occasioni lavorative ordinarie”).

 

L’assegno mensile può essere versato direttamente al figlio maggiorenne?

La nuova formulazione dell’art. 337 septies c.c. rimette al giudice la facoltà di prevedere la corresponsione diretta dell’assegno mensile al figlio maggiorenne. Ciò esclude che il genitore possa autonomamente iniziare a versare l’assegno in via diretta al figlio.

Dovrà, pertanto, esserci l’accordo anche dell’altro genitore, che autorizzi il versamento diretto dell’assegno a mani del figlio.

amministratore di sostegno

Amministratore di sostegno: cos’è, destinatari, effetti

Una figura innovativa e senz’altro fondamentale per la tutela di quei soggetti deboli, impossibilitati a provvedere ai propri interessi: questo è l’amministratore di sostegno, introdotto nel nostro ordinamento con la Legge 6/2004. Vediamo insieme che cosa è di preciso, chi sono i destinatari e quali sono gli effetti di una richiesta di amministrazione di sostegno.

Che cos’è l’amministrazione di sostegno?

L’amministratore di sostegno è una figura chiamata ad assistere un soggetto beneficiario impossibilitato a provvedere ai propri interessi poiché si trova in una condizione di fragilità esistenziale e non è in grado di attendere autonomamente ai propri interessi. È dunque una misura di protezione che mira a tutelare e a rappresentare chi si trova in una situazione di infermità fisica o psichica, sia essa temporanea o permanente.

L’ambito dei poteri dell’amministratore di sostegno è stabilito con decreto motivato del Giudice Tutelare. Il tutto, va specificato, con la minore limitazione possibile della capacità di agire del beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Il Giudice Tutelare stabilisce infatti le attività che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore. Tutti gli atti non indicati nel decreto, pertanto, non rappresentano una limitazione, come si evince dall’art. 409 del Codice Civile, in cui è stabilito che il beneficiario “conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno”.

Chi sono i potenziali beneficiari dell’amministrazione di sostegno?

L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione duttile e plasmabile a seconda delle caratteristiche del caso specifico. Può, dunque, essere applicata in una grande varietà di situazioni, ogni qualvolta vi sia una condizione di fragilità della persona.

Possibili destinatari dell’amministrazione di sostegno sono:

  • malati psichiatrici o persone affette da patologie della sfera psichica;
  • anziani;
  • persone affette da Morbo di Alzheimer o demenza senile;
  • persone disabili;
  • alcolisti;
  • tossicodipendenti;
  • persone affette da ludopatie;
  • sordomuti e ciechi;
  • prodighi.

Quali sono gli effetti della nomina di un amministratore di sostegno?

Come abbiamo visto, l’art. 409 c.c. stabilisce che il beneficiario dell’amministrazione di sostegno è pienamente capace nell’esercizio dei suoi diritti per tutti gli atti non espressamente stabiliti nel decreto. Per tutti gli atti riportati dal Giudice Tutelare, invece, l’amministratore di sostegno può essere chiamato ad agire o in assistenza del beneficiario (insieme al beneficiario) oppure in rappresentanza esclusiva (in nome e per conto dello stesso).

In quest’ultimo caso, si possono distinguere due ulteriori situazioni:
1) Per gli atti di ordinaria amministrazione (ad esempio l’acquisto di beni mobili) l’amministratore può agire anche senza preventiva autorizzazione del Giudice (salvo il caso in cui sia stato stabilito diversamente dal decreto);
2) Per gli atti di straordinaria amministrazione (ad esempio l’acquisto di un bene immobile) l’amministratore deve essere autorizzato dal Giudice Tutelare.

Quali sono i doveri dell’amministratore di sostegno?

È l’art. 410 del codice civile a stabilire gli obblighi e i doveri dell’amministratore di sostegno nello svolgimento dei suoi compiti. Tra questi:
– Tenere sempre conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario.
Dovere di informazione, ovvero informare tempestivamente il beneficiario circa gli atti da compiere, o ancora di avvisare il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso.
I casi di contrasto, di scelte o atti dannosi, oppure di negligenza da parte dell’amministratore, comportano il ricorso al Giudice Tutelare, che può decidere di adottare con decreto motivato alcuni provvedimenti, tra cui la revoca e la sostituzione dell’amministratore con altro incaricato idoneo, oppure la nomina di un curatore speciale per il compimento dell’operazione che ha suscitato il conflitto. Ai sensi dell’art. 44 disp. att. Cod. Civ., il Giudice Tutelare potrebbe anche convocare l’amministratore chiedendo chiarimenti, senza prendere i provvedimenti prima elencati (a patto che l’amministratore si uniformi alle indicazioni del Giudice).
– Non è tenuto a continuare nello svolgimento dei suoi compiti oltre dieci anni, a meno che tale incarico sia rivestito dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dagli ascendenti o dai discendenti.
Rendicontazione periodica: l’amministratore deve rendere conto dello svolgimento della propria attività di sostegno, aggiornando il Giudice sulle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.
Giuramento: L’amministratore di sostegno deve, dopo la nomina e quando assume l’incarico, prestare giuramento di fedeltà e diligenza nello svolgimento dell’incarico.

Chi può diventare amministratore di sostegno?

La scelta della persona che rivestirà il ruolo di amministratore di sostegno viene effettuata dal Giudice Tutelare con riguardo agli interessi del beneficiario.

Nella scelta vanno preferiti, ove possibile, il coniuge non separato o il convivente, l’unito civilmente, il padre o la madre, il figlio, i fratelli o le sorelle, e più in generale i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo. Nella decisione, il Giudice tiene conto della volontà manifestata dal beneficiario, ma non ne è vincolato. Può dunque discostarsene, motivando la decisione, qualora ritenga che la designazione effettuata dal beneficiario possa non essere conforme al suo interesse. La scelta dell’amministratore di sostegno può anche ricadere su persone estranee alla cerchia familiare, scelte di norma da un elenco di professionisti accreditati presso il Tribunale.

La nomina di una persona esterna alla famiglia del beneficiario avviene quando non vi siano familiari disponibili, oppure quando vi sia una situazione di conflittualità tra i parenti. Non possono invece ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura il soggetto beneficiario.

La nomina dell’amministratore di sostegno può essere richiesta direttamente dal beneficiario, anche qualora sia minore, interdetto o inabilitato; dal coniuge o convivente, dai parenti entro il 4° grado oppure gli affini entro il 2° grado. Anche il Pubblico Ministero, il tutore o il curatore possono effettuare tale richiesta.

Come si presenta il ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno?

La nomina dell’amministratore di sostegno è un procedimento non contenzioso: per questo è assai veloce e informale. La domanda va presentata mediante ricorso al Giudice Tutelare del luogo in cui il soggetto interessato vive stabilmente, indicando le ragioni a fondamento della domanda di nomina dell’amministratore di sostegno.

L’istruttoria è semplificata: il Giudice deve raccogliere le informazioni utili per la valutazione della sussistenza dei presupposti per la nomina dell’amministratore di sostegno. In alcuni casi, può essere sufficiente l’esame della documentazione medica che attesta la condizione di incapacità – fragilità della persona beneficiaria, in altri vengono disposti accertamenti medico legali per accertare l’effettiva situazione psico-fisica del beneficiario. Gli accertamenti istruttori possono essere disposti dal giudice anche d’ufficio.
Un passaggio fondamentale ed imprescindibile è l’audizione del beneficiario.
Nella prassi, l’audizione dei parenti è limitata ai casi in cui i parenti abbiano informazioni utili da riferire al giudice.

Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno contiene una puntuale indicazione dei poteri attribuiti all’amministratore di sostegno, e più esattamente specifica:
– le generalità del beneficiario e dell’amministratore di sostegno;
– la durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato;
– l’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno può compiere in rappresentanza del beneficiario (in nome e per conto dello stesso);
– gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno;
i limiti delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con le somme del beneficiario;
– la periodicità della rendicontazione con cui l’amministratore di sostegno deve riferire al giudice l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.

È bene ricordare che nel procedimento di nomina interviene sempre il Pubblico Ministero per rendere un parere sul caso, parere che non è vincolante per il Giudice.

Inoltre, è sempre possibile chiedere la cessazione o la sostituzione dell’amministratore di sostegno. Questo avviene sia nel caso in cui ci siano presupposti per la cessazione dell’incarico,sia quando l’amministratore di sostegno si sia dimostrato inidoneo, rendendo necessaria la sua sostituzione.
La richiesta deve essere presentata con apposita istanza al giudice da parte del beneficiario, dell’amministratore di sostegno, del Pubblico Ministero o dagli altri soggetti indicati (art. 406 c.c.). Anche in questo caso, il Giudice Tutelare decide con decreto motivato.

Adozione Nazionale: Fasi e Requisiti di idoneità

In Italia, l’adozione di minorenni è un istituto previsto e regolato dalla legge n.183 del 1984. La legge stabilisce con precisione tutto l’iter da seguire per poter adottare un bambino in Italia. Tra gli elementi cardine, troviamo in particolare la situazione dello stato di abbandono del minore e la successiva dichiarazione di adottabilità, nonché i requisiti che i futuri genitori devono possedere per poter avviare la procedura.

Lo stato di abbandono del minore e la dichiarazione di adottabilità.

La legge consente a un bambino in stato di abbandono di entrare a far parte di un’altra famiglia, acquisendo a tutti gli effetti lo status di figlio dei genitori adottanti. Il primo presupposto per un’adozione è dunque la dichiarazione dello stato di abbandono del minore, emessa dal Tribunale dei Minorenni dopo un’accurata verifica dell’effettiva situazione di mancata assistenza morale e materiale da parte dei genitori biologici o dei parenti tenuti a provvedere al minore (escluso il caso in cui questa mancanza sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio).

Va comunque ricordato che l’art. 1 della legge 183/1984 sancisce solennemente che “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia“, riconoscendo dunque un ruolo prioritario alla famiglia d’origine del minore. Ugualmente, la giurisprudenza stabilisce che lo stato di abbandono costituisce la soluzione estrema, da applicarsi nei casi in cui siano risultati impraticabili o infruttuosi gli interventi di sostegno tesi a rimuovere le situazioni di difficoltà o disagio in cui si trova la famiglia d’origine.

La procedura per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore si svolge davanti al Tribunale per i Minorenni. Parti necessarie del procedimento sono i genitori o, qualora il minore sia orfano, i parenti entro il quarto grado. Sia i genitori (o parenti) che il minore hanno diritto ad essere difesi nel procedimento da un avvocato di loro fiducia.

L’adozione nazionale: i requisiti per l’idoneità

Si parla di adozione nazionale quando una coppia di genitori intende adottare un minore in ambito nazionale. La legge 183/1984 stabilisce, all’art. 6, i requisiti che le coppie che intendono adottare devono possedere:

1) I futuri genitori devono essere coniugati e conviventi da almeno tre anni, senza che sia intervenuta separazione, anche solo di fatto. Nel computo viene considerata anche la convivenza precedente al matrimonio.

2) L’età degli adottanti deve superare di almeno 18 anni l’età dell’adottando, ma non deve superarla di 45 anni. I limiti d’età possono essere comunque derogati dal Tribunale dei minori in questi casi specifici:
– Quando si accerta che dalla mancata adozione deriverebbe un danno grave e irreparabile per il minore stesso, che rischierebbe di non poter essere adottato per violazione dei limiti stabiliti.
– Quando il limite di età dei 45 anni è superato solo da uno dei due coniugi per un massimo di dieci anni, oppure qualora i coniugi siano genitori di figli, anche adottivi, dei quali almeno uno sia minore d’età, oppure qualora l’adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già adottato dalla stessa coppia.

3) La coppia dev’essere idonea ad educare, istruire e mantenere i minori che intende adottare. La valutazione dell’idoneità viene effettuata dai Servizi sociali, su incarico del Tribunale per i minorenni.

Tutte le fasi per adottare un minore in Italia

1) Innanzitutto, per accedere all’adozione nazionale è necessario presentare domanda al Tribunale per i minorenni del distretto di residenza. Il giudice minorile esamina dunque la domanda e, dopo averla dichiarata idonea, la trasmette ai Servizi sociali, che si occuperanno di organizzare incontri conoscitivi con la coppia. Dopo aver raccolto le informazioni necessarie (tra cui valutazioni psicologiche, indagini mediche e accertamenti giudiziali), gli assistenti sociali elaborano una relazione che viene trasmessa al Tribunale per i minorenni.

2) A questo punto il Tribunale, ricevuta la relazione e verificata la sussistenza dei requisiti, emette entro 2 mesi il decreto di idoneità all’adozione nazionale, grazie a cui la coppia potrà accedere all’adozione. Il decreto ha validità tre anni, trascorsi i quali è necessario presentare una nuova domanda. Nel procedimento è obbligatoria l’audizione degli interessati.

Nonostante la presenza dei requisiti oggettivi (matrimonio, convivenza ultratriennale ed età), può accadere che la valutazione dell’idoneità all’adozione da parte degli assistenti sociali o del Tribunale sia negativa, e dunque il procedimento può concludersi con un decreto di inidoneità all’adozione. Contro questo provvedimento è possibile presentare reclamo, chiedendo alla Corte d’Appello territorialmente competente di riesaminare il caso.

3) L’affidamento preadottivo costituisce una fase della procedura di adozione, e va tenuto distinto dall’affidamento temporaneo, il quale ha finalità e presupposti del tutto diversi.

L’affidamento temporaneo è, infatti, uno strumento di supporto ai minori in difficoltà, il cui scopo è fornire aiuto immediato ad un minore privo anche solo momentaneamente di un ambiente familiare adeguato. Si tratta, dunque, di una misura d’emergenza, che viene disposta quando la famiglia d’origine non è in grado temporaneamente di prendersene cura. Non presuppone, dunque, lo stato di abbandono del minore, che abbiamo visto essere il requisito fondamentale per l’adottabilità. Allo stesso modo, non richiede che gli affidatari presentino i requisiti richiesti per l’adozione. (Clicca qui per approfondire il tema dell’affidamento temporaneo).

L’affidamento preadottivo, invece, è finalizzato all’adozione vera e propria. L’affidamento preadottivo deve e avere una durata di almeno 12 mesi, al termine dei quali verrà stilata una relazione dei servizi sociali al giudice minorile competente ai fini della decisione definitiva sull’adozione.

4) A conclusione del periodo di affidamento preadottivo, il Tribunale per i minorenni emette la sentenza di adozione. La sentenza viene pronunciata dopo aver sentito i soggetti interessati: coniugi adottandi, il minore se ha più di dodici anni, il tutore e gli operatori sociali. Vengono sentiti anche i figli della coppia adottante, se hanno compiuto i dodici anni. Nel procedimento interviene il Pubblico Ministero, per rendere un parere sul caso, non vincolante per la decisione.

Perché possa disporsi l’adozione di un minore che abbia compiuto i 14 anni è necessario il consenso del minore stesso. Se il Tribunale decide di non dare luogo all’adozione, emette contestualmente misure a protezione del minore, revocando il provvedimento di affidamento preadottivo e collocando il minore in un’altra famiglia o in una comunità.

Contro la sentenza è possibile fare appello, nel termine di 30 giorni dalla notifica. La decisione della Corte d’Appello può, infine, essere impugnata in Cassazione, ma solo per motivi afferenti la violazione o falsa applicazione delle norme di legge.

Con la pronuncia della sentenza di adozione si costituisce lo status di figlio della coppia adottante da parte del minore e si interrompono definitivamente i rapporti di parentela con la famiglia d’origine. L’adottato acquista i diritti di figlio nei confronti degli adottanti, come se fosse un loro figlio biologico (per questa ragione si parla di “adozione piena“, per distinguerla dall’adozione in casi speciali di cui all’art. 44 della legge sulle adozioni, in cui non vi è una piena costituzione dello status di figlio). La sentenza definitiva di adozione è comunicata all’ufficiale dello stato civile competente, che la annota a margine dell’atto di nascita dell’adottato.

La procedura sopra descritta riguarda l’adozione di bambini italiani. Per adottare un bambino straniero, occorre seguire la procedura per l’adozione internazionale, disciplinata dalla Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993 ratificata in Italia con la legge n. 476 del 31.12.1998 che ha un diverso iter.

Dottore che controlla cartella clinica in vista della pianificazione condivisa delle cure con il paziente secondo la nuova Legge sul Biotestamento

Legge sul Biotestamento: il Consenso Informato e le DAT

È entrata in vigore il 31 Gennaio la cosiddetta legge sul Biotestamento (Legge n. 219/2017) approvata lo scorso 22 dicembre. Una legge definita da più parti di “compromesso”, che introduce però importanti novità, tra cui la riforma della disciplina del Consenso Informato alle cure mediche e le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT).

1.Il Consenso Informato

Il primo punto affrontato dalla legge sul Biotestamento rafforza il Diritto all’Autodeterminazione, ovvero il diritto a poter decidere della propria salute, anche rifiutando o interrompendo un trattamento sanitario (comma 1, art.1). Un principio, questo, già presente nella Costituzione e nella Carta dei diritti fondamentali dell’uomo, e che viene ora ulteriormente consolidato.

Il Consenso Informato consiste nell’assenso o diniego del paziente al trattamento sanitario e ed ha come fondamento la scelta libera e consapevole del paziente, punto di incontro tra l’autonomia decisionale dell’interessato e le competenze professionali del medico. La nuova legge, infatti, valorizza l’alleanza terapeutica, ovvero la relazione tra paziente e staff medico, imponendo a quest’ultimo l’obbligo di informare adeguatamente l’interessato sul suo stato di salute, aggiornandolo in modo completo su diagnosi, prognosi, rischi e benefici degli accertamenti diagnostici, ed istruendolo sulle conseguenze di un eventuale rifiuto alle terapie.
Ricevute queste informazioni, il paziente potrà esprimere il suo consenso alle cure o agli accertamenti diagnostici oppure rifiutarli. Il consenso o il rifiuto andranno manifestati per iscritto e registrati sulla Cartella Clinica e sul Fascicolo Sanitario Elettronico.
Il medico sarà tenuto a rispettare le decisioni del paziente, anche quando determini l’interruzione di trattamenti medici in grado di garantire la sopravvivenza del paziente.

Degno di nota il riferimento al coinvolgimento dei familiari. Questi non solo possono essere coinvolti nelle relazioni con l’equipe sanitaria, qualora l’interessato lo desideri: nel caso in cui il paziente voglia sottrarsi alle informazioni complete circa il suo stato di salute, la Legge permette di nominare un incaricato di fiducia che potrà esprimere il Consenso (o la rinuncia) al trattamento sanitario.

Anche i minori sono chiamati a esprimere la loro volontà con il Consenso Informato, dopo essere stati adeguatamente informati con modalità consone alle loro capacità di comprensione. I genitori, o chi esercita la responsabilità genitoriale, sono quindi chiamati a esprimere o a negare il consenso al trattamento sanitario in relazione alla volontà del minore, tutelandone la dignità e la salute.

Nel caso di pazienti interdetti, ovvero dichiarati incapaci di provvedere ai propri interessi, ad esprimere il consenso o il rifiuto è la figura del tutore, che dovrà però assicurare di aver “sentito l’interdetto, ove possibile” (comma 3, articolo 2). Gli inabilitati, invece, possono esprimere autonomamente la propria volontà; per persone che beneficiano di amministrazione di sostegno, la figura chiamata ad esprimere o rifiutare il consenso al trattamento sanitario sarà l’amministratore di sostegno.
In caso di contrasto tra i sanitari ed il rappresentante della persona incapace o del minore o l’amministratore di sostegno la decisione sarà assunta dal Giudice Tutelare.

2. Le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)

Il 4 è l’articolo che introduce l’elemento di novità più significativo della Legge. La norma, infatti, disciplina le DAT, ovvero le Disposizioni Anticipate di Trattamento attraverso cui ogni persona maggiorenne può esprimere le proprie scelte circa l’applicazione di trattamenti sanitari e cure in vista di un’eventuale futura incapacità di far valere il proprio Diritto di Autodeterminazione.

Come nell’articolo 1, viene ribadita l’assoluta importanza dell’essere adeguatamente informati prima di prendere qualsiasi decisione in merito alla propria salute. Il cittadino così formato ha quindi il diritto di dirigere le proprie DAT ed esprimere il consenso o il rifiuto a determinate e scelte terapeutiche e diagnostiche ed a singoli trattamenti sanitari, incluse le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali.
Come farlo? La Legge sul Biotestamento prevede che le DAT debbano essere redatte in forma di atto pubblico (presso un notaio), attraverso scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, ovvero mediante scrittura privata da consegnare presso l’Ufficio di Stato Civile del proprio comune di residenza. Le DAT possono essere espresse dalla persone in condizioni di invalidità anche attraverso videoregistrazioni o dispositivi che consentano alla persona di comunicare.

Le DAT stesse possono essere rinnovate, modificate o revocate in qualsiasi momento con le modalità di forma indicate sopra, ed in caso di emergenza o urgenza possono essere revocate anche con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata dal medico alla presenza di due testimoni.

Nelle DAT è possibile nominare un Fiduciario, vale a dire una persona che faccia le veci del paziente nella relazione con lo staff medico. Il Fiduciario dev’essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. La nomina dev’essere accettata dal Fiduciario sottoscrivendo le DAT oppure con atto successivo, che viene allegato alle DAT. La persona nominata come Fiduciario è comunque libera di rifiutare l’incarico, dandone notizia all’interessato attraverso atto scritto. La nomina a Fiduciario può anche essere revocata o decadere in caso di un suo decesso o perdita delle sue facoltà di intendere e di volere.

Lo scopo delle DAT è quello di garantire il pieno rispetto della volontà del paziente, anche nel momento in cui questi non sia in condizione di esprimerla autonomamente.
I sanitari, dunque, dovranno rispettare le disposizioni anticipate di trattamento.
E’ tuttavia prevista la possibilità di disattendere le Disposizioni del paziente nei casi in cui il medico, in accordo con il Fiduciario, ritenga che le volontà espresse dal cittadino non siano congrue con le condizioni cliniche in quel momento presenti nel paziente, ovvero quando siano state elaborate, successivamente alla redazione delle DAT, terapie mediche in grado di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente. Eventuali situazioni di conflitto saranno rimesse alla decisione del chiarite dal Giudice tutelare.

3. La pianificazione condivisa delle cure

Oltre alle DAT, la legge disciplina la possibilità per il paziente malato terminale, affetto da patologia cronica e invalidante o da malattia dall’esito infausto di decidere, in accordo con il proprio medico, il percorso di cure a cui attenersi nel caso in cui non possa più, in futuro, esprimere il suo consenso.
La pianificazione può essere aggiornata in qualsiasi momento e, anche in questo caso, gioca un ruolo fondamentale la relazione tra medico e paziente. Ancora una volta, viene ribadita l’importanza dell’essere consapevoli delle proprie decisioni, attraverso il rilascio di informazioni puntuali e precise sullo stato di salute e sulle conseguenze del consenso o del rifiuto di determinate terapie.
Viene posta particolare attenzione, inoltre, alle cure palliative e alla terapia del dolore, nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure ed il ricorso alla sedazione palliativa profonda da applicarsi in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari (art. 2).

Nuovo partner dopo la separazione: come introdurlo ai figli

Una delle questioni più delicate che si pongono dopo la separazione è quella dell’introduzione nella vita dei figli del nuovo compagno o della nuova compagna.

Spesso, infatti, l’inserimento del nuovo partner nella vita dei figli è un passaggio difficile, vissuto con particolare tensione sia dal genitore che dai figli. E molte volte si verificano resistenze da parte dell’altro genitore che, realmente preoccupato per il benessere dei figlio o mosso da gelosia, pone “veti” alla frequentazione tra il figlio e il nuovo compagno dell’ex.

Sotto il profilo giuridico il principio cardine da tenere sempre in considerazione è il principio di bigenitorialità: i figli hanno diritto di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori, e dunque hanno diritto di partecipare alla vita di entrambi i genitori nella sua completezza.

È dunque normale che, se non vi sono problematiche specifiche, il figlio venga a contatto ed abbia un rapporto di frequentazione con i nuovi compagni dei genitori. Ed è normale che il figlio condivida con il genitore momenti quali la nuova convivenza, il matrimonio ed altri eventi della vita del genitore.

Le clausole che alle volte vengono inserite negli accordi di separazione o di divorzio in cui si prevede l’obbligo per i coniugi di introdurre i nuovi compagni in modo graduale nella vita dei figli, così come quelle che vietano i contatti per un certo periodo di tempo, non costituiscono un vero e proprio obbligo giuridico, ma si sostanziano in un impegno morale che, se violato, non comporta l’applicazione di alcuna sanzione.

In mancanza di prescrizioni di legge, non resta che seguire regole di buon senso e fare appello alla sensibilità dei genitori, chiamati ad avere la massima attenzione nell’introdurre un nuovo compagno nella vita dei figli, per evitare agli stessi figli traumi e possibili sofferenze.

Una regola fondamentale è quella di introdurre il rapporto prima di introdurre la persona, vale a dire iniziare a comunicare ai figli la possibilità che il papà o la mamma siano coinvolti in un nuovo rapporto sentimentale, dando il tempo al bambino di elaborare questa eventualità.

Si dovrà,  inoltre, evitare la sovrapposizione dei ruoli: il bambino dovrà avere sempre chiaro che il nuovo fidanzato della mamma o la fidanzata del papà sono figure distinte rispetto ai genitori “veri” e che i genitori “veri” rimarranno sempre il suo punto di riferimento.

Assegnazione della casa familiare e genitori in conflitto

Nella decisione sull’assegnazione della casa coniugale nella separazione, il giudice deve tener conto esclusivamente dell’interesse dei figli. Pertanto, non può disporre la co-assegnazione dell’immobile, previa suddivisone in due distinte unità abitative, qualora il conflitto tra i genitori sia particolarmente acceso e la vicinanza abitativa dei medesimi possa recare turbativa alla crescita equilibrata e serena dei figli minori.

La casa familiare può essere assegnata soltanto in presenza di figli

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, e non a compensare un eventuale divario tra le posizioni economiche dei coniugi.

Il provvedimento di assegnazione ha lo scopo di proteggere i figli, garantendo loro di conservare una continuità, quando meno sotto il profilo abitativo e delle abitudini, di fronte alla disgregazione del nucleo familiare.

L’assegnazione, dunque, va effettuata in favore del coniuge convivente con i figli. In mancanza di figli minori o di figli maggiorenni non autonomi, il giudice non può assegnare la casa coniugale: l’immobile resterà al coniuge che ne è proprietario; se l’immobile è in comproprietà ai due coniugi, si applicheranno le ordinarie regole della comunione.

Se i genitori sono in conflitto, non si può coassegnare la casa coniugale

In una vicenda oggetto di un recente provvedimento della Corte di Cassazione, il marito in sede di separazione aveva chiesto l’assegnazione di una parte dell’ex casa coniugale, sostenendo che i figli minori avrebbero ottenuto un grande beneficio dalla vicinanza con il padre, al quale erano uniti da un forte legame affettivo, e che gli interventi di divisione della casa erano facili da realizzare e non eccessivamente costosi.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, motivando tale decisione con la sussistenza di un’elevata conflittualità tra i coniugi: per i giudici la litigiosità dei coniugi rendeva la coassegnazione contraria all’interesse dei figli, specie in mancanza di un accordo tra le parti circa la facile divisibilità dei vani e considerato che la moglie, nel frattempo, aveva intrapreso una convivenza con un altro uomo.

La sentenza, confermata in appello, non è stata modificata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto inammissibile per ragioni tecniche il ricorso presentato dal marito.

 

Fonte: Cass. Civ. ordinanza 10 novembre 2017, n. 26709.