La convivenza forzata non impedisce il divorzio

Per poter divorziare è necessario che la separazione personale si sia protratta ininterrottamente per un certo periodo di tempo, e più esattamente per sei mesi, in caso di separazione consensuale, o dodici mesi, qualora la separazione sia giudiziale.
Il termine decorre dalla data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale, quando la separazione abbia seguito il tradizionale iter innanzi al Tribunale (ciò vale sia per la separazione consensuale, sia per quella giudiziale) ovvero dalla data di sottoscrizione dell’accordo di separazione concluso mediante la negoziazione assistita o innanzi all’ufficiale dello stato civile. Lo stabilisce l’art. 3 della legge sul divorzio.

In questo lasso di tempo i coniugi devono aver condotto effettivamente vite separate, senza ricostruzione della comunione materiale e spirituale tipica del matrimonio, senza riconciliarsi.
La riconciliazione non richiede una pronuncia giudiziale, ma un mero comportamento di fatto, determinato dal ripristino della vita matrimoniale tra le parti, con la convivenza e la prosecuzione del progetto di vita comune e della condivisione propria del rapporto coniugale.

Con una recente ordinanza, la Cassazione ha sottolineato che la mera coabitazione dei coniugi separati sotto lo stesso tetto non è di per sè sufficiente a dimostrare la riconciliazione, e dunque a bloccare il divorzio.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava una coppia che aveva convissuto fino a pochi mesi prima del deposito del ricorso per divorzio. Convenuta in giudizio, la moglie aveva tentato di bloccare il divorzio, sostenendo l’intervenuta riconciliazione proprio in considerazione del rapporto di coabitazione.

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconciliazione comporta il ripristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che fonda il matrimonio. La semplice coabitazione, oggi assai frequente a causa della crisi economica, non è decisiva per dimostrare la riconciliazione, ma dev’essere valutata come elemento di prova, unitamente ad altri fattori, quali il comportamento delle parti, anche in sede processuale.
Nella vicenda esaminata, i giudici hanno tenuto conto del fatto che il rapporto tra i coniugi, fin dalla richiesta di separazione, era stato particolarmente conflittuale (il marito aveva presentato domanda di addebito della separazione alla moglie) ed inoltre era stato accertato che i coniugi convivevano, ma in stanze separate ed in un clima di forte tensione.

Per contrastare il divorzio, dunque, non basta dimostrare che la coabitazione non è venuta meno, ma occorre comprovare che l’avvenuto ripristino del consorzio familiare ed il superamento delle condizioni che avevano condotto i coniugi alla decisione di separarsi.

Fonte: Cass. civ. ordinanza n. 2360 del 5.2.2016

In arrivo il divorzio diretto

Non è passato neppure un anno da quando il legislatore, con la legge 55/2015, ha riformato il divorzio, diminuendo in modo consistente i termini che devono decorrere dalla separazione personale per poter chiedere lo scioglimento del vincolo coniugale: si è passati da tre anni a sei mesi, in caso di separazione consensuale, e dodici mesi, qualora la separazione sia stata giudiziale.

Una significativa accelerata dei tempi, che potrebbe venire presto superata con l’introduzione del divorzio diretto, vale a dire della possibilità per i coniugi di divorziare consensualmente, saltando il passaggio, oggi obbligato, della separazione personale.

E’ infatti in discussione alla Commissione Giustizia del Senato il Disegno di legge n. 1504 bis che modifica la legge 898/70 sul divorzio, prevedendo l’inserimento del nuovo art. 3-bis.
Con la nuova norma, il divorzio diretto potrà essere richiesto soltanto in particolari situazioni, e più esattamente è escluso quando vi siano
– figli minori
– figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave
– figli di età inferiore ai 26 anni non economicamente autosufficienti.

La richiesta di scioglimento del matrimonio (o cessazione degli effetti civili, quando si tratti di matrimonio concordatario) potrà essere presentata soltanto consensualmente, su accordo di entrambi, e dovrà seguire necessariamente un iter giudiziale.

Dovrà, dunque, essere presentato un ricorso al giudice, mentre non potranno trovare applicazione le nuove procedure della negoziazione assistita e dell’accordo dinnanzi al Sindaco.

Se la proposta diventerà legge, si avrà il completo lo svincolo del divorzio dalla separazione personale, evitando i tempi di attesa ed i costi del doppio passaggio.

Fonte: D.D.L. n. 1504 bis in www.senato.it

Quando cessa l’obbligo di mantenimento dei figli?

Contribuire al mantenimento della prole è un obbligo per i genitori che perdura anche oltre il compimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte del figlio.

Esso consiste, in buona sostanza, nel dovere di fornire al figlio gli strumenti per renderlo indipendente, mediante un’istruzione ed una formazione professionale rapportate alle sue aspirazioni e capacità, oltre che alle condizioni economiche e sociali dei genitori.

All’obbligo del genitore corrisponde il diritto del figlio ad essere mantenuto fino a che non dispone di entrate proprie, in grado di garantirgli di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, con appropriata collocazione in senso al corpo sociale.

Il rischio è, però, che si creino posizioni parassitarie, in cui il figlio, non più giovanissimo, si adagi in una situazione di comodo, continuando a vivere nella casa familiare ed a pesare sulle finanze di genitori sempre più anziani, pur disponendo di capacità lavorativa e della possibilità di essere economicamente indipendente.

La prova dell’effettivo raggiungimento dell’autonomia da parte del figlio spetta al genitore tenuto al versamento dell’assegno.

Al riguardo, la giurisprudenza ha più volte chiarito che non ha diritto ad essere mantenuto dai genitori il figlio che abbia concorso consapevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza, ad esempio, lasciando immotivatamente un’occupazione lavorativa o rifiutando di accettare un impiego adeguato alla sua formazione o non attivandosi nella ricerca di un lavoro o prolungando nel tempo gli studi universitari senza profitto.

In questo senso si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione, con una recente decisione riguardante la richiesta di un padre di essere esonerato dal concorrere al mantenimento di due figli maggiorenni, entrambi iscritti all’università, ma senza impegno (avevano entrambi dato pochi esami) e titolari di redditi da lavoro propri.

La Cassazione ha ribadito che “ il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica, ma pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita”.

La circostanza che i figli, pur avendo avuto dai genitori l’opportunità di frequentare l’università, avessero proseguito gli studi in modo inerte e senza trarne profitto è stata ritenuta valido motivo perla revoca del contributo paterno al loro mantenimento.

Fonte: Cass. civ. n. 1858/2016 del 1.2.2016

Adozione: corsia preferenziale per i genitori affidatari

E’ entrata in vigore il 13 novembre 2015 la legge 173/2015 che introduce alcune importantissime modifiche alla legge sull’adozione (n. 184/1983). La nuova legge consente ai genitori affidatari di poter accedere, con una corsia preferenziale, all’adozione del minore che hanno in affidamento.

Come noto, l’affidamento familiare costituisce una misura temporanea, che viene attivata dal Tribunale per i minori o dal Giudice Tutelare quando la famiglia d’origine è in difficoltà e non è in grado di prendersi cura del minore. Lo strumento è finalizzato a consentire di svolgere adeguate misure di sostegno per la famiglia d’origine, in modo da consentire al minore di farvi rientro, una volta superate le problematiche che avevano condotto all’allontanamento. Non sempre però le difficoltà familiari trovano una soluzione, e pertanto può accadere che il minore venga dichiarato in stato di abbandono, presupposto necessario per la sua adottabilità.

In precedenza, l’adozione e l’affidamento familiare rimanevano due istituti distinti, con la conseguenza che il minore allontanato dalla famiglia biologica ed affidato temporaneamente a terzi, nel periodo, il più delle volta assai lungo, necessario all’accertamento dello stato di abbandono, rischiava di dover passare dalla famiglia affidataria, con la quale aveva nelle more instaurato un legame affettivo, ad un’altra famiglia, dalla quale veniva adottato. Un’ulteriore separazione ed un ulteriore trauma per il minore, già diviso dalla famiglia d’origine.
La legge 173/2015 crea una corsia preferenziale per i genitori affidatari, attribuendo finalmente rilievo nella decisione sull’adozione ai “legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria“.

Ed anche qualora il minore faccia rientro nella famiglia d’origine o venga dato in affidamento o in adozione ad altra famiglia è previsto comunque che venga tutelata “la continuità delle positive relazioni socio affettive consolidatesi durante l’affidamento“.

Il periodo di affidamento viene riconosciuto come parte integrante della storia del minore, e non più come un mero momento di passaggio.
Certamente un importante passo avanti nella tutela dei diritti minori. Limite dell’intervento normativo è costituito però dall’obbligo, per i genitori affidatari, di possedere i requisiti previsti dall’art. 6 della legge 184/83 ai fini dell’adozione, e cioè l’essere coniugati e conviventi da almeno tre anni e di spettare i limiti d’età stabiliti ex lege rispetto all’addottando.

Fonte: legge 19.10.2015 n. 173