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Il diritto alla bigenitorialità: fondamentale per lo sviluppo armonioso dei bambini

Il diritto alla bigenitorialità è un principio fondamentale nel contesto giuridico familiare, sottolinea l’importanza dell’interazione continua e positiva dei genitori nella vita dei propri figli.

Questo concetto si basa sull’idea che, quando possibile, entrambi i genitori dovrebbero essere coinvolti nella crescita e nell’educazione dei loro figli, promuovendo così uno sviluppo sano e armonioso.

Innanzitutto, è importante comprendere che la bigenitorialità non riguarda soltanto il tempo trascorso con i figli, ma anche la partecipazione attiva e responsabile nell’assumere le decisioni cruciali per il loro benessere. Questo diritto è sancito nel nostro ordinamento dall’art. 337 ter del codice civile, con l’obiettivo di garantire che entrambi i genitori abbiano l’opportunità di costruire un legame significativo con i propri figli, contribuendo così alla formazione di una solida base emotiva e psicologica.

La bigenitorialità è diritto dei minori anche nelle situazioni di separazione o divorzio. In tali circostanze, è essenziale superare le divergenze personali e concentrarsi sul bene superiore dei bambini. La legislazione in molti paesi promuove accordi di affidamento e custodia condivisa, incoraggiando la cooperazione tra i genitori per garantire che i figli possano mantenere relazioni significative con entrambi i genitori e con i parenti di entrambi i rami.

Studi psicologici sostengono l’importanza della presenza di entrambi i genitori nella vita di un bambino. La diversità di stili educativi, quando gestita in modo coeso, può arricchire l’esperienza di crescita del minore, offrendogli una prospettiva equilibrata del mondo. Inoltre, la presenza costante di entrambe le figure genitoriali può svolgere un ruolo chiave nel fornire un sostegno emotivo stabile, fondamentale per il benessere psicologico dei bambini.

Tuttavia, è cruciale sottolineare che la bigenitorialità non è sempre possibile o appropriata in tutte le situazioni. Ci sono casi in cui la presenza di uno dei genitori potrebbe rappresentare un rischio per il benessere del bambino, come in situazioni di abuso o negligenza o quando la conflittualità tra i genitori è talmente elevata da non consentire loro alcuna forma di dialogo costruttivo. In tali circostanze, il giudice può intervenire per proteggere il bambino, prendendo decisioni mirate a garantire la sua sicurezza.

Per garantire l’efficacia del diritto alla bigenitorialità, è fondamentale promuovere una cultura di rispetto reciproco tra genitori, incoraggiando la comunicazione aperta e la collaborazione nella presa di decisioni importanti per i figli. La mediazione familiare può rappresentare un valido strumento per risolvere dispute e conflitti, facilitando la creazione di accordi che tengano conto delle esigenze di tutti i membri della famiglia.

In conclusione, il diritto alla bigenitorialità è un pilastro essenziale nel garantire il benessere dei bambini. Quando entrambi i genitori sono coinvolti positivamente nella vita dei propri figli, si crea un ambiente favorevole allo sviluppo sano e armonioso dei bambini, promuovendo relazioni stabili e un futuro equilibrato.

Separazione e divorzio insieme: oggi è possibile

Tra le più importanti novità introdotte dalla Riforma Cartabia vi è la possibilità di richiedere il divorzio insieme alla separazione.

In passato, il procedimento di divorzio poteva essere avviato soltanto a distanza di un certo tempo dalla separazione, e più esattamente dopo sei mesi, se la separazione era consensuale, o dopo un anno, in caso di separazione giudiziale. Ora invece separazione e divorzio possono formare oggetto del medesimo procedimento ed essere trattate dallo stesso giudice.
Lo prevede espressamente il nuovo art. 473 bis.49 del codice di procedura civile.

La norma di riferimento

Secondo tale norma al momento di avvio del procedimento di separazione si può chiedere anche la pronuncia del divorzio (in gergo tecnico, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, a seconda del rito di celebrazione delle nozze).
La regola è prevista per le separazioni giudiziali, vale a dire quelle che vedono le parti in contrasto tra di loro sulle condizioni dell’assetto separativo (a titolo esemplificativo, sull’assegnazione della casa, sulla gestione dei figli o sul mantenimento).

Cosa accade in caso di separazione consensuale?

L’ipotesi di separazione consensuale non è contemplata dalla norma e pertanto la possibilità di separarsi e divorziare consensualmente nello stesso procedimento è una questione aperta.

Vari tribunali italiani si sono pronunciati sul tema, adottando però soluzioni diverse. Alcuni tribunali (Genova e Milano, ad esempio) applicano in senso estensivo l’art. 473 bis.19 del codice di procedura civile e consentono il cumulo di separazione e divorzio anche nei ricorsi consensuali.
Altri (tra cui Ferrara e Bari) non lo consentono: tale posizione restrittiva, frutto di una interpretazione letterale della nuova norma, si rifà all’orientamento interpretativo della Corte di Cassazione che da sempre ritiene nulli e invalidi i patti prematrimoniali e gli accordi di divorzio preventivi.
Di recente, il Tribunale di Treviso ha rimesso a questione alla Corte di Cassazione, la quale potrà chiarire la questione.

Quali sono i vantaggi del cumulo di separazione e divorzio?

Il principale vantaggio è evitare la duplicazione dei procedimenti, considerato che spesso le questioni oggetto della causa di separazione coincidono con quelle oggetto del divorzio. Accorpando i due procedimenti si risparmia tempo e si può ottenere più velocemente una regolamentazione definitiva dei rapporti.

Attenzione però: la riforma Cartabia non ha abrogato la norma che stabilisce che in caso di separazione giudiziale debba decorrere un anno dalla prima udienza della separazione per poter chiedere il divorzio. Pertanto, anche in caso di cumulo della domanda di separazione e divorzio, occorrerà attendere un anno dalla prima udienza della causa affinchè il tribunale possa emettere la sentenza di divorzio.

E’ obbligatorio chiedere insieme separazione e divorzio?

No, si tratta di una facoltà. La scelta va fatta assieme al proprio avvocato, tenendo conto delle caratteristiche della specifica vicenda familiare, degli obbiettivi che si vogliono ottenere e della miglior tutela dei propri diritti e interessi.
Non sempre, infatti, può essere opportuno presentare la domanda di divorzio insieme alla separazione.

Danni in famiglia: l’amante deve risarcire il danno?

L’adulterio è una violazione del dovere di fedeltà coniugale e può essere motivo di addebito della separazione, se si dimostra che ha causato la frattura del matrimonio. Se poi la relazione extraconiugale viene condotta con modalità offensive della dignità del coniuge, può essere ragione di risarcimento dei danni.

In questo caso, non c’è dubbio che chi viene tradito possa chiedere il risarcimento dei danni al marito o alla moglie fedifraghi. Ma può chiedere il risarcimento dei danni anche all’amante del coniuge? Dopo tutto, l’amante con il suo comportamento contribuisce alla crisi coniugale. Può quindi essere considerato a sua volta responsabile legalmente dei danni subiti dal coniuge tradito?

Con la sentenza n. 156 del 29 marzo 2022 la Corte d’Appello di Perugia ha affrontato un caso emblematico.

La vicenda

I fatti esaminati dai giudici umbri riguardano una richiesta di risarcimento danni presentata dal marito nei confronti della moglie, dalla quale nel frattempo si era separato, e dell’amante di lei.

Il marito, in particolare, aveva chiesto 600.000,00 euro di risarcimento, di cui 200.000,00 per sé e 200.000,00 per ciascuno per i due figli minori avuti dalla moglie.

Secondo l’uomo, il tradimento delle moglie era stato la causa della separazione e della disgregazione della famiglia. Egli sosteneva, poi, che la moglie e l’amante di lei avevano avuto comportamenti lesivi della sua dignità e del suo onore: i due avevano, tra l’altro, pubblicato sui social post nei quali lo offendevano e, con riferimenti allusivi alla sua persona, si prendevano gioco di lui.

La decisione

La Corte d’Appello di Perugia ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni rivolta all’amante della moglie.

I giudici, in particolare, hanno escluso in capo all’amante ogni responsabilità, evidenziando che gli unici comportamenti illeciti sono ascrivibili alla moglie che ha tradito il marito, così violando l’obbligo di fedeltà.

L’amante della moglie, infatti, è una persona terza rispetto al matrimonio e non ha alcun obbligo nè dovere nei confronti del coniuge dell’altro, anzi è libero di esprimere il proprio diritto di autodeterminazione e la sua personalità come crede opportuno, anche frequentando e intrattenendo una relazione con una persona sposata.

Recita la sentenza: non è ravvisabile in capo ai terzi un generico dovere di astensione dall’intrattenere rapporti con persone coniugate. L’amante deve dirsi libero di intrattenere relazioni interpersonali anche con persone sposate nell’esercizio del proprio diritto di autodeterminazione, del diritto alla libera esplicazione della personalità, nonché della propria libertà sessuale, costituzionalmente garantiti.

Insomma, chiedere i danni all’amante del coniuge contrasta con la Costituzione.

 

Genitori separati: a chi spetta l’Assegno Unico e Universale?

Secondo il tribunale di Bari, spetta al 100% al genitore convivente con i figli.

Più in particolare, con una sentenza pubblicata il 3 febbraio 2022 il tribunale di Bari ha stabilito che, in caso di genitori separati, le prestazioni erogate dall’INPS a tutela della famiglia devono andare in favore del genitore che ha la collocazione  dei figli.

Nella motivazione della sentenza, il tribunale richiama una sentenza della Corte di cassazione secondo cui il legislatore nella normativa in materia di assegni familiari ha inteso favorire il coniuge affidatario dei figli e sancito il diritto di quest’ultimo a percepire gli assegni familiari indipendentemente da chi sia titolare del rapporto di lavoro posto alla base dell’erogazione. Applicando questo principio – afferma il tribunale di Bari – anche l’assegno unico, che ha preso il posto degli assegni per il nucleo familiare, spetta per intero al genitore convivente coi figli.

Attenzione, però: si tratta soltanto di una interpretazione.

Le indicazioni dell’INPS

Qualche giorno fa, l’INPS si è espressa in senso diametralmente opposto: infatti, con il messaggio n. 1714 del 20 aprile 2022 l’INPS ha chiarito i principi che presiedono l’attribuzione dell’Assegno Unico e Universale in favore dei minorenni ai genitori separati.

Le regole variano a seconda del tipo di affidamento e sono le seguenti:

In caso di affidamento condiviso

Il principio generale è che l’Assegno Unico e Universale viene erogato al 50% ciascuno ai genitori che hanno l’affidamento condiviso dei figli.

Tuttavia, resta salva la facoltà dei genitori di concordare che il contributo venga erogato per intero solo a uno dei due.

Dunque, i genitori possono accordarsi nel senso che l’assegno spetti per intero al genitore che ha la collocazione prevalente dei figli. Ma attenzione: devono essere entrambi d’accordo! Se uno dei due dice di no, l’assegno viene attribuito in automatico al 50%.

In caso di affidamento esclusivo

L’assegno viene sempre erogato per intero al genitore che ha l’affidamento esclusivo.

Se lo ha stabilito il giudice

Inoltre, se il giudice, nel provvedimento che disciplina la separazione di fatto, legale o il divorzio dei genitori, ha disposto che dei contributi pubblici usufruisca uno solo dei genitori, l’assegno viene sempre erogato a un solo genitore, a prescindere dal tipo di affidamento, .

Cosa fare se la domanda presentata da un genitore non rispetta le regole?

Se un genitore ha presentato la domanda chiedendo l’attribuzione al 100% in violazione delle regole di cui sopra, l’altro genitore  può presentare all’INPS istanza di revisione della domanda, allegando la documentazione a sostegno della sua richiesta (ad esempio, il provvedimento del tribunale che dispone l’affidamento condiviso).

 

La Corte Costituzionale rivoluziona le regole sul cognome dei figli

Il vento di primavera arriva dalla Corte Costituzionale: con una storica sentenza, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che regolano l’attribuzione del cognome ai figli nel nostro ordinamento.

La norme che sono state esaminate della Corte Costituzionale sono due:
– la norma che non consente ai genitori di attribuire al figlio, di comune intesa, soltanto il cognome della madre,
– la norma che in mancanza di accordo tra i genitori prevede che debba essere dato al figlio soltanto il cognome del padre e non quello di entrambi i genitori.

Entrambe le norme sono state dichiarate incostituzionali, poiché contrarie agli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione e agli articoli 8 e 4 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

A seguito dell’intervento della Consulta, il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da essi concordato, a meno che i genitori decidano di comune accordo di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In caso di disaccordo, verrà applicato il cognome di entrambi i genitori.

Questi i principi sanciti dalla Corte Costituzionale, secondo il comunicato stampa diffuso in attesa della pubblicazione della sentenza.

Spetta a questo punto al legislatore intervenire per regolare gli aspetti pratici conseguenti alla decisione.

Un altro passo avanti verso l’uguaglianza e la piena tutela dell’interesse del figlio.

Adozione speciale: il legame coi parenti adottivi è un diritto del minore

E’ stata pubblicata lo scorso 28 marzo la sentenza della Corte Costituzionale n. 79/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità delle norme relative all’adozione in casi particolari (detta anche “adozione speciale”) che non consentono la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante.

Cos’è l’adozione in casi particolari?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale), è regolata dagli art. 44 e seguenti dalla legge 184 del 1983 sull’adozione e viene applicata in quattro ipotesi specifiche:

1 – la prima si verifica quando il minore è orfano di padre di madre e ci sono dei parenti entro il sesto grado o legati a lui da un rapporto affettivo stabile disposti ad occuparsene;

2 – la seconda ipotesi si verifica in favore del figlio del coniuge;

3 – la terza riguarda il minore orfano in condizioni di disabilità;

4– la quarta è infine quella relativa ad una constatata impossibilità di affidamento preadottivo (ciò accade, ad esempio, quando il minore non può essere dichiarato in stato di abbandono).

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) è lo strumento che viene utilizzato per consentire l’adozione del figlio del partner anche in coppie unite civilmente o tra conviventi non coniugati.

Che differenza c’è tra adozione speciale e adozione piena?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) si differenzia dall’adozione piena (o adozione legittimante) per il fatto che nell’adozione in casi particolari non si interrompe il legame del minore adottato con la sua famiglia biologica. I genitori adottivi diventano responsabili della crescita dell’assistenza del minore, ma rimane comunque un rapporto tra il bambino e il suo il nucleo di provenienza.
Al contrario, nell’adozione piena (o adozione legittimante) il legame tra il minore e la famiglia d’origine si interrompe del tutto e il bambino diventa parte per la legge soltanto della famiglia dei genitori adottivi.
Questo comporta delle conseguenze, ad esempio, anche per quanto attiene il cognome: nell’adozione piena il cognome della famiglia adottiva sostituisce il cognome originario del bambino, nell’adozione speciale il cognome del genitore adottivo si aggiunge al cognome originario.

Cosa accade rispetto ai parenti della famiglia adottiva?

Fino all’intervento della Corte Costituzionale, un altro elemento che distingueva l’adozione in casi particolari (o adozione speciale) dall’adozione piena era costituito dal fatto che si creava un rapporto soltanto tra il bambino e il genitore adottivo, ma non si creava un rapporto di parentela tra il bambino adottato e i familiari del genitore adottivo.
Per la legge, il minore adottato con la modalità dell’adozione speciale non aveva, dunque, nella famiglia adottiva fratelli, nonni, ziii e cugini.

La recente sentenza della Consulta ha cambiato le regole, dichiarando non conforme ai principi costituzionali e discriminatoria la regola contenuta nell’art. 55 della legge 184 del 1983 che non consentiva la creazione di un rapporto di parentela tra il minore adottato e la famiglia adottiva.

Il legame coi parenti è un diritto del minore

L’apertura della Corte Costituzionale è il risultato di un progressivo riconoscimento ampliativo dei minori. La normativa e la giurisprudenza degli ultimi anni hanno mostrato grandissima attenzione nei confronti della figura del minorenne e hanno cercato sempre di più di porre tutti i bambini sullo stesso piano, riconoscendo a tutti i figli lo stesso stato giuridico.

Con questo ulteriore tassello la Corte Costituzionale ha affermato che entrare nella rete parentale dei genitori adottivi costituisce un vero e proprio diritto del minore adottato, indipendentemente dal tipo di adozione.

 

Fonte: Corte Costituzionale, sentenza n. 79 del 2022.

Se il marito resta senza lavoro deve continuare a pagare l’assegno di mantenimento alla moglie?

Sì, ma solo se permane un divario tra le condizioni economiche dei coniugi.  Se il reddito del marito rimane superiore a quello della moglie, l’assegno va ridotto, ma non eliminato.

 

Le regole della separazione e del divorzio possono cambiare

Le disposizioni economiche della separazione e del divorzio non sono immutabili nel tempo, ma possono cambiare se cambiano i redditi e il patrimonio dei coniugi o degli ex coniugi.

Pertanto, quando il coniuge tenuto al versamento dell’assegno peggiora la propria condizione economica può rivolgersi al giudice per ottenere la revisione di quanto stabilito nella separazione, domandando la riduzione o l’eliminazione dell’assegno.

Il giudice dovrà rivalutare la condizione economica di entrambi i coniugi e verificare quale sia l’assetto attuale e quanto il cambiamento abbia inciso sulle condizioni economiche delle parti.

Il cambiamento, per fondare la modifica delle precedenti prescrizioni, deve essere rilevante e stabile. Non basta un cambiamento temporaneo o con effetti limitati nel tempo

 

Se il marito perde il lavoro …

In un recente caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano il marito ha chiesto la modifica delle condizioni di separazione dichiarando che la società di cui era amministratore aveva cessato l’attività e di essere pertanto rimasto privo delle relative entrate. Al momento della separazione egli percepiva compensi come amministratore della società e una pensione. Con l’estinzione della società, gli era rimasta solo la pensione.

Alla luce del peggioramento delle sue condizioni economiche, il marito ha chiesto che venisse tolto l’assegno di 2.000,00 € per il mantenimento della moglie previsto al momento della separazione.

I giudici hanno ribadito che la modifica delle condizioni reddituali dei coniugi incide sulle regole relative al mantenimento e consente di rimodulare l’assegno, ma non lo fa venire meno automaticamente.

Nel caso specifico, hanno ritenuto che fosse comunque necessario riconoscere un contributo alla moglie, perché, anche se il marito aveva peggiorato la sua condizione finanziaria, rimaneva comunque un sensibile divario nell’assetto economico dei coniugi. Se il marito si era impoverito, la moglie se la passava peggio, in quanto del tutto priva di redditi.

L’assegno per la moglie è stato così ridotto a 500 € mensili, ma non è stato eliminato.

 

Fonte: Corte d’appello di Milano decreto 27 ottobre 2021

Gli accordi tra genitori separati sulle visite ai figli sono vincolanti per il giudice?

No, non lo sono. Il giudice può decidere anche diversamente da quanto concordato dai genitori, se ritiene che regole diverse siano meglio rispondenti all’interesse del figlio.
In tema di separazione personale dei coniugi e di divorzio, e anche con riferimento ai figli di genitori non sposati, il criterio fondamentale cui devono ispirarsi le decisioni dell’autorità giudiziaria riguardo ai figli è rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale dei figli. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 1993 pubblicata il 24 gennaio 2022.
La norma di riferimento è l’articolo 337 ter del codice civile, che pone al centro dell’attenzione del giudice il figlio e il suo migliore interesse. Il tribunale, dunque, non è vincolato agli accordi tra i genitori sul calendario delle visite e può discostarsene per realizzare l’interesse del figlio. La decisione, però, va adeguatamente motivata: il giudice deve chiarire quali sono le specifiche ragioni per cui la soluzione proposta dai genitori non va bene per i figli.

Il caso: tribunale, prima, e corte d’appello, poi, avevano ridotto i giorni di competenza del padre

Il caso giunto all’attenzione della Cassazione riguardava una coppia di genitori non coniugati che, nel procedimento relativo alla regolamentazione dei rapporti con i figli davanti al tribunale di Bologna, aveva concordato l’affidamento condiviso dei figli, la loro collocazione abitativa con la madre e il tempo di permanenza dei figli minori con il padre. Il calendario condiviso prevedeva che il padre trascorresse con i figli sei giorni ogni due settimane.
Nonostante l’accordo, il tribunale aveva ridotto a cinque giorni ogni due settimane il periodo che i figli trascorrevano con il padre e la Corte d’appello aveva poi confermato tale decisione, senza tuttavia chiarire le motivazioni alla base di tale decisione.
Il padre, dunque, si era trovato costretto a rivolgersi alla Corte di Cassazione, contestando la nullità della decisione d’appello in quanto i giudici avevano deciso andando oltre le richieste delle parti.

La decisione però non era motivata e pertanto…

La Cassazione, dopo aver evidenziato che in tema di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli il giudice deve tener conto soltanto dell’interesse del minore, a prescindere dagli accordi tra i genitori, ha accolto la richiesta del padre, sottolineando che la decisione difforme dagli accordi tra i genitori dev’essere adeguatamente motivata. Nel caso esaminato né il tribunale né la corte d’appello avevano giustificato la previsione di un calendario difforme da quello chiesto dai genitori. Pertanto, la causa è stata rimessa alla causa alla Corte d’appello di Bologna per essere riesaminata.

Fonte: Cassazione, Sez. VI, ord. n. 1993 del 1-24 gennaio 2022

assegnazione casa familiare

Fino a quando dura l’assegnazione della casa familiare?

L’assegnazione della casa familiare è un provvedimento finalizzato a proteggere i figli minorenni ed a consentire loro di continuare a vivere, anche dopo la separazione dei genitori, nel medesimo habitat, nell’ambiente domestico che loro identificano come “casa”, dove hanno i loro oggetti e le loro abitudini.
L’assegnazione prescinde dal diritto di proprietà e non lo intacca, ma va a costituire un diritto personale di godimento sulla casa familiare in favore del genitore convivente con i figli minorenni, che ha, pertanto, il diritto di abitare l’immobile. In altre parole, il proprietario della casa rimane tale, ma la disponibilità dell’immobile viene vincolata all’interesse dei figli ed al loro di diritto di crescere in modo equilibrato e sereno.

L’assegnazione della casa familiare corrisponde, peraltro, ad una modalità diretta di mantenimento dei figli e quando è di proprietà di uno dei genitori o di entrambi, va considerata anche ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento, in quanto comporta un risparmio di spese abitative per il genitore assegnatario.

Se si tratta di immobile in locazione, l’assegnatario subentra in automatico nel contratto di locazione in essere, assumendo gli obblighi del conduttore.

E se i figli sono maggiorenni?

L’assegnazione della casa familiare va disposta anche quando i figli sono maggiorenni non economicamente autosufficienti.

In presenza di figli maggiorenni, però, la funzione dell’assegnazione cambia: il provvedimento di assegnazione non protegge più il diritto del figlio a crescere in modo equilibrato e sereno, dato che il raggiungimento della maggiore età corrisponde all’ingresso nell’età adulta, ma tutela le esigenze concrete di vita del figlio che non abbia ancora completato il proprio percorso di autonomia economico-patrimoniale.

Dunque, in presenza di figli maggiorenni il provvedimento di assegnazione della casa familiare ad uno dei genitori è possibile soltanto se il figlio
non è indipendente economicamente e
convive con uno dei genitori (cui, appunto, verrà assegnata la casa familiare).

Quando viene meno l’assegnazione?

Il provvedimento di assegnazione della casa familiare viene meno nei seguenti casi:

– se l’assegnatario vi rinuncia;

– quando il figlio diventa economicamente autonomo (se sono più di uno, quando l’ultimo dei figli diventa indipendente);

– quando il figlio, anche se non indipendente dal punto di vista economico, si trasferisce a vivere stabilmente altrove. Nel caso in cui il trasferimento sia dovuto a ragioni di studio (ad esempio, il figlio che va a studiare in altra città), le situazioni vanno valutate caso per caso, ma in via prevalente si ritiene che l’assegnazione debba rimanere in vita fino a che non si interrompe in maniera stabile il rapporto con l’abitazione.

E se non ci sono figli? La casa coniugale può essere assegnata ad uno dei coniugi?

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa familiare può essere disposta soltanto in presenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.

Pertanto, è escluso che l’assegnazione della casa coniugale possa essere applicata alle coppie senza figli, anche nel caso in cui ci sia notevole divario tra le condizioni economiche dei coniugi e l’uso della casa possa assumere una funzione riequilibratice del divario nell’assetto economico dei coniugi.

Certamente, in sede di separazione personale i coniugi che non hanno figli sono liberi di regolare l’utilizzo della casa, prevedendo che uno dei due vi rimanga a vivere a titolo gratuito, ma è necessario che siano entrambi d’accordo (separazione consensuale). Se non sono d’accordo ed avviano una separazione giudiziale, il Tribunale non potrà disporre l’assegnazione della casa coniugale in favore di uno dei due, in quanto, per legge, l’assegnazione è prevista soltanto a tutela dei figli.

Separazione e divorzio a confronto

1. Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Separazione personale e divorzio sono due istituti giuridici diversi. La separazione è un passaggio necessario per poter chiedere il divorzio.

Con la separazione si allenta il vincolo del matrimonio, in particolare vengono meno alcuni doveri tipici del matrimonio, in particolare il dovere di convivenza e il dovere di fedeltà. Altri doveri coniugali si allentano: il dovere di assistenza materiale, ad esempio, rimane vivo nel caso ci sia una differenza tra le condizioni economiche dei coniugi.

Con la separazione i coniugi vengono autorizzati a vivere separati e possono smettere di vivere sotto lo stesso tetto.

Se i coniugi sono in regime di comunione legale, con la separazione cessa la comunione legale.

La separazione però non fa venir meno il matrimonio: due persone separate restano comunque sposate, e pertanto non possono sposarsi in seconde nozze e sono l’una erede dell’altra, allo stesso modo dei coniugi non separati.

Il vincolo matrimoniale viene meno soltanto con il divorzio: il divorzio scioglie il matrimonio, consente ai coniugi di riacquistare lo stato civile libero, perciò di potersi risposare, e fa venir meno i diritti ereditari reciproci.

 

2. Quando posso chiedere la separazione?

Si può chiedere la separazione quando la crisi coniugale è irreversibile e si ritiene di non poter proseguire la convivenza matrimoniale. Si tratta di una scelta molto personale e soggettiva.

 

3. Quando posso chiedere il divorzio?

Per chiedere il divorzio è necessario che siano passati almeno sei mesi dalla separazione, se consensuale.

Se la separazione è stata giudiziale, deve passare almeno un anno dalla prima udienza. Si può chiedere il divorzio anche se la causa di separazione è ancora pendente, ma è necessario che sia stata emessa una sentenza non definitiva di separazione.

 

4. Che differenza c’è tra separazione consensuale e separazione giudiziale?

Separazione consensuale e giudiziale sono solo le due modalità per arrivare alla separazione legale.

La separazione consensuale è possibile quando i coniugi raggiungono un accordo sulle regole della loro separazione e stabiliscono assieme l’assetto della loro vita da separati, decidendo, ad esempio, chi resterà nella casa familiare, con chi staranno i figli, in che modo provvedere al mantenimento dei figli, ecc.

La separazione consensuale richiede la capacità dei coniugi di confrontarsi e trovare assieme una soluzione condivisa.

Una volta trovato, l’accordo dev’essere formalizzato mediante un provvedimento del tribunale ovvero, senza passare in tribunale, mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un vero e proprio contratto, sottoscritto alla presenza degli avvocati, che regolamenta la separazione.

La separazione giudiziale, invece, è una vera e propria causa davanti al tribunale, al quale si ricorre quando non è possibile trovare un accordo consensuale.

 

5. Che differenza c’è tra divorzio consensuale e giudiziale?

Anche il divorzio, come la separazione, può seguire una procedura consensuale o giudiziale.

Il divorzio consensuale richiede l’accordo dei coniugi sulle condizioni del divorzio.

L’accordo può essere formalizzato mediante il ricorso al tribunale: il tribunale, sentiti i coniugi in un’unica udienza, decide in camera di consiglio ed emette la sentenza di divorzio. Una volta che la sentenza è diventata definitiva, il divorzio è efficace anche ai fini dello stato civile. Da quel momento è possibile passare a nuove nozze.

Come la separazione, anche il divorzio consensuale si può fare mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un contratto firmato davanti agli avvocati. La procedura di negoziazione assistita non richiede la comparizione dei coniugi in tribunale, ma ci sono una serie di adempimenti che svolgono gli avvocati. Con la negoziazione assistita il divorzio è efficace dalla data della firma dell’accordo.

Quando non è possibile trovare un accordo sulle condizioni del divorzio, è necessario rivolgersi al tribunale con un ricorso per divorzio giudiziale, dando così avvio a una vera e propria causa.

 

6. Che cosa viene deciso nella separazione?

Gli aspetti che vengono decisi nella separazione sono vari.

Se ci sono figli, nella separazione dev’essere deciso il loro affidamento e la loro collocazione abitativa, cioè con quale genitore manterranno la residenza anagrafica, i tempi di permanenza presso l’altro genitore, le modalità con cui ciascun genitore contribuirà al mantenimento dei figli.

Inoltre, si decidono le sorti della casa familiare: quando ci sono figli, la casa viene assegnata al coniuge che ha con sé i figli in via prevalente. Assegnazione vuol dire che il coniuge ha diritto di rimanere a vivere nella casa coniugale, anche se non è di sua proprietà, fino a che i figli non raggiungono l’indipendenza economica.
In assenza di figli, si dovrà stabilire chi resterà a vivere nella casa.

Nella separazione, inoltre, si deve regolare il contributo al mantenimento del coniuge, se ve ne sono i presupposti. In generale, l’assegno per il coniuge viene stabilito quando c’è una differenza significativa tra i redditi dei coniugi.

Nella separazione giudiziale, può essere discussa anche la domanda di addebito della separazione, cioè l’accertamento che le ragioni della crisi familiare sono state determinate dal comportamento di uno dei due coniugi. Questo accade, ad esempio, nel caso in cui la separazione sia stata causata da maltrattamenti o dall’adulterio.

 

7. Che cosa viene deciso nel divorzio?

Nel divorzio viene disposto lo scioglimento del matrimonio e per il resto vengono esaminati gli stessi temi che abbiamo visto sopra per la separazione, tranne la domanda di addebito.

L’addebito, infatti, può essere chiesto solo nella separazione giudiziale. Nel divorzio non si torna più a discutere delle cause che hanno portato alla separazione, a meno che le cause non siano ritenute rilevanti ai fini della domanda di assegno divorzile.

Anche sotto il profilo economico ci sono alcune differenze tra l’assegno di mantenimento del coniuge che viene stabilito nella separazione e l’assegno di divorzio. L’assegno divorzile, vale a dire l’assegno che spetta al coniuge meno abbiente, si basa infatti su presupposti diversi dall’assegno di mantenimento del coniuge della separazione.

 

8. Le regole della separazione o del divorzio possono essere cambiate?

Le regole fissate nella separazione e nel divorzio non restano fisse nel tempo e possono essere cambiate ogni volta che intervengono fatti nuovi rilevanti che vanno ad incidere sull’assetto definito nella separazione o nel divorzio.

Si considerano rilevanti tutti gli eventi che riguardano la condizione lavorativa (ad esempio, la perdita del lavoro, il pensionamento, il passaggio ad un impiego più redditizio, ecc.) o la salute (ad esempio, l’invalidità sopravvenuta) o le nuove situazioni familiari dei coniugi (ad es. la convivenza stabile con un nuovo compagno, la nascita di un figlio) o ancora la crescita dei figli (ad es. il trasferimento all’estero, il raggiungimento dell’indipendenza economica, ecc.).

La modifica delle condizioni di separazione e divorzio non può essere concordata privatamente, ma richiede un atto formale, analogo a quello che si vuole modificare. Sarà dunque necessario un nuovo accordo ratificato dal tribunale o dagli avvocati nell’ambito della procedura di negoziazione assistita.

In mancanza di accordo, si può avviare in tribunale un apposito procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Si tratta di un procedimento che ha un iter veloce e una procedura semplificata.

 

9. Cosa devo fare se mio marito/mia moglie non si vuole separare?

Nel nostro ordinamento la separazione è un diritto, pertanto è sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi.
Se l’altro non si vuole separare, si può comunque ottenere la separazione avviando il procedimento di separazione giudiziale.

 

10. Esiste la separazione per colpa?

Non c’è nel nostro ordinamento una separazione per colpa, ma è possibile chiedere nella separazione giudiziale che il tribunale accerti che la fine del matrimonio è stata causata dal comportamento di uno solo dei coniugi. Si tratta della domanda di addebito della separazione.

Serve a dimostrare che la causa della crisi coniugale è stata determinata dal comportamento di uno dei due coniugi che ha violato i doveri coniugali stabiliti dalla legge. I casi più frequenti riguardano l’adulterio (che integra violazione del dovere di fedeltà) e l’abbandono del tetto coniugale (il coniuge che va via di casa senza giusta causa viola il dovere di coabitazione).

L’addebito della separazione ha l’effetto di far venir meno il diritto all’assegno di mantenimento, se presente, e di far venir meno i diritti ereditari del coniuge cui la separazione viene addebitata. Inoltre, comporta la condanna al pagamento delle spese legali della causa di separazione.

 

11. Quanto dura una causa di separazione o di divorzio giudiziale?

La durata è quella di un procedimento giudiziale, in genere ci vogliono almeno due, tre anni per arrivare alla decisione conclusiva. Alle volte anche di più, dipende anche dalla tipologia degli accertamenti istruttori che vengono chiesti. Ad esempio, se viene richiesta una perizia sulle condizioni economiche dei coniugi, si devono considerare anche i tempi tecnici necessari per l’esecuzione dell’indagine.

In ogni caso, sia nella separazione che nel divorzio giudiziale, il tribunale già dalla prima udienza stabilisce regole provvisorie che disciplinano i rapporti tra i coniugi e con i figli. Queste regole possono sempre essere modificate nel corso del procedimento su richiesta dei coniugi e comunque possono essere modificate dalla sentenza che chiude il procedimento.