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Nuovo partner dopo la separazione: come introdurlo ai figli

Una delle questioni più delicate che si pongono dopo la separazione è quella dell’introduzione nella vita dei figli del nuovo compagno o della nuova compagna.

Spesso, infatti, l’inserimento del nuovo partner nella vita dei figli è un passaggio difficile, vissuto con particolare tensione sia dal genitore che dai figli. E molte volte si verificano resistenze da parte dell’altro genitore che, realmente preoccupato per il benessere dei figlio o mosso da gelosia, pone “veti” alla frequentazione tra il figlio e il nuovo compagno dell’ex.

Sotto il profilo giuridico il principio cardine da tenere sempre in considerazione è il principio di bigenitorialità: i figli hanno diritto di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori, e dunque hanno diritto di partecipare alla vita di entrambi i genitori nella sua completezza.

È dunque normale che, se non vi sono problematiche specifiche, il figlio venga a contatto ed abbia un rapporto di frequentazione con i nuovi compagni dei genitori. Ed è normale che il figlio condivida con il genitore momenti quali la nuova convivenza, il matrimonio ed altri eventi della vita del genitore.

Le clausole che alle volte vengono inserite negli accordi di separazione o di divorzio in cui si prevede l’obbligo per i coniugi di introdurre i nuovi compagni in modo graduale nella vita dei figli, così come quelle che vietano i contatti per un certo periodo di tempo, non costituiscono un vero e proprio obbligo giuridico, ma si sostanziano in un impegno morale che, se violato, non comporta l’applicazione di alcuna sanzione.

In mancanza di prescrizioni di legge, non resta che seguire regole di buon senso e fare appello alla sensibilità dei genitori, chiamati ad avere la massima attenzione nell’introdurre un nuovo compagno nella vita dei figli, per evitare agli stessi figli traumi e possibili sofferenze.

Una regola fondamentale è quella di introdurre il rapporto prima di introdurre la persona, vale a dire iniziare a comunicare ai figli la possibilità che il papà o la mamma siano coinvolti in un nuovo rapporto sentimentale, dando il tempo al bambino di elaborare questa eventualità.

Si dovrà,  inoltre, evitare la sovrapposizione dei ruoli: il bambino dovrà avere sempre chiaro che il nuovo fidanzato della mamma o la fidanzata del papà sono figure distinte rispetto ai genitori “veri” e che i genitori “veri” rimarranno sempre il suo punto di riferimento.

Abbandono del tetto coniugale e addebito della separazione

Se il coniuge lascia la casa coniugale rischia l’addebito della separazione, a meno che non dimostri che l’uscita di casa è dovuta a giusta causa.

La convivenza è, infatti, un obbligo per le persone sposate, sancito dall’art. 143 del Codice civile. La violazione di tale obbligo, così come quella degli altri obblighi coniugali (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia), costituisce una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e, in sede di separazione personale, può essere contestata dall’altro coniuge e fondare l’addebito della separazione.

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito che, quando la richiesta di addebito della separazione è motivata dall’abbandono del tetto coniugale, il coniuge uscito di casa può evitare l’addebito della separazione se prova la sussistenza di una giusta causa.

La “giusta causa” può consistere in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto.

Cosa significa “addebito della separazione”

L’addebito consiste, in estrema sintesi, nell’attribuzione della responsabilità della separazione al coniuge che ha violato i doveri matrimoniali: si sostiene, cioè, che la separazione è stata causata dal comportamento di uno dei due.

Conseguenze dell’addebito sono, in estrema sintesi, tre:

1 – il coniuge cui viene addebitata la separazione perde definitivamente il diritto all’assegno di mantenimento (se ve ne sono i presupposti)

2 – sotto il profilo successorio, la pronuncia di addebito anticipa gli effetti del divorzio: il coniuge cui viene addebitata la separazione non è più erede dell’altro (mentre l’altro mantiene i diritti successori)

3 – generalmente, poi, il coniuge cui viene addebitata la separazione viene condannato al rimborso delle spese legali della separazione all’altro.

La pronuncia dell’addebito può essere chiesta soltanto in sede di separazione personale (non nel divorzio, né nella modifica delle condizioni di separazione) e, ovviamente, esclusivamente nel procedimento di separazione giudiziale (non nella separazione consensuale).

Come si ottiene l’addebito della separazione

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata sul punto: per la pronuncia di addebito nella separazione, è necessaria non solo l’esistenza di una violazione degli obblighi tra coniugi nascenti dal matrimonio, ai sensi dell’art. 143 c.c., ma pure quella di uno stretto rapporto di causalità tra tale violazione e l’elemento della intollerabilità della convivenza (si vedano, tra le altre, Cass. n. 9074/2011 e 2059/2012).

Ciò significa che per dimostrare che la separazione è addebitabile all’altro coniuge occorre anzitutto dimostrare che questi ha tenuto comportamenti contrari ai doveri coniugali (ad esempio: ha condotto una relazione extraconiugale, oppure ha cessato di provvedere al mantenimento della famiglia, ecc.).

Ed inoltre, è necessario dimostrare che i comportamenti contrastanti con i doveri coniugali sono stati la causa della separazione, poichè hanno reso intollerabile la prosecuzione della convivenza familiare.

Dimostrare, ad esempio, che il coniuge ha commesso adulterio, e dunque ha violato il dovere di fedeltà coniugale, non è sufficiente; occorre anche dimostrare che l’adulterio è stata la causa della separazione: se le condotte adulterine sono state tollerate dall’altro coniuge ed ugualmente se l’adulterio è stato commesso quando il matrimonio era già in crisi per altre ragioni, la pronuncia di addebito potrebbe essere negata.

Allontanamento dalla casa coniugale e “giusta causa”

Con la recente ordinanza n. 25966 del 2016, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’abbandono del tetto coniugale costituisce elemento da solo sufficiente a rendere impossibile la prosecuzione della convivenza. E dunque il coniuge che intende chiedere l’addebito della separazione è esonerato dal dimostrare che l’uscita di casa è stata la causa della separazione.

Il coniuge che si è allontanato, però, ha la possibilità di evitare l’addebito della separazione, dimostrando che l’allontanamento è dovuto a “giusta causa”, che può consistere, ad esempio, in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto in vista della successiva ufficializzazione della separazione.

Fonte: ordinanza Corte di Cassazione n. 15 dicembre 2016, n. 25966 (est. Dogliotti)

Come si calcola l’assegno di mantenimento dei figli?

Una delle questioni da affrontare nella separazione, anche dei conviventi di fatto, è il contributo al mantenimento dei figli.
L’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è un obbligo di legge inderogabile ed irrinunciabile. Esso è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che sorgono in capo ai genitori per il solo fatto della procreazione.

Contribuire al mantenimento dei figli significa provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive, ecc. ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere conservando, anche nella separazione dei genitori, lo stesso tenore di vita tenuto quando la famiglia era unita.

L’obbligo di mantenimento perdura dalla nascita del figlio fino alla sua piena indipendenza economica, cioè fino a quando il figlio non dispone di redditi propri ed è autonomo economicamente. L’obbligo dunque non viene meno automaticamente quando il figlio diventa maggiorenne, ma perdura anche oltre la maggiore età, fino a che il figlio non è in grado di mantenersi da solo.

Ma come si misura l’obbligo di mantenimento?

Il principio di proporzionalità

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione tra i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli è il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle sue sostanze, comprensive dei redditi (stipendio), del patrimonio (beni posseduti) ed anche della capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Tale principio, affermato dall’art. 316 bis c.c., è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione dei genitori, coniugati e non.

Gli altri criteri per la quantificazione del mantenimento

L’art. 337 ter c.c.  stabilisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” .
La norma elenca i parametri di riferimento che il giudice e le parti devono usare nella quantificazione dell’assegno mensile per il mantenimento dei figli, parametri che sono volti – precisa la norma – a realizzare il principio di proporzionalità, e più esattamente:

1) le esigenze attuali del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio quando la famiglia era unita;
3) i tempi che il figlio trascorre con ciascun genitore;
4) le risorse economiche dei genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura che ciascun genitore svolge.

L’assegnazione della casa familiare

Ulteriore elemento di valutazione economica, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo.

Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro di conservare l’ambiente domestico e di vita, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

Il genitore cui la casa è assegnata ha il diritto di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’abitazione e di tutti i mobili e gli arredi presenti in casa, anche se l’immobile è cointestato all’altro o di proprietà esclusiva dell’altro.

L’assegnazione, ovviamente, incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario può realizzarsi un risparmio di spesa (dato che rimane nella casa a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per prendere in affitto o acquistare di un altro immobile.

Dell’assegnazione della casa coniugale, dunque, si deve tener conto anche nella quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.

Mantenimento diretto o assegno?

Generalmente quanto i genitori si separano viene stabilito un assegno mensile che il genitore che non convive con i figli deve versare all’altro genitore per contribuire al mantenimento dei figli.
La previsione dell’assegno, però, non è obbligatoria: in presenza di determinate condizioni, è possibile non prevedere il versamento dell’assegno, stabilendo che ciascuno dei genitori provveda in via diretta al mantenimento del figlio, facendosi carico delle spese che servono al figlio per il tempo in cui lo ha con sè. Si tratta del cosiddetto “mantenimento diretto“.

Questa soluzione richiede l’accordo delle parti e viene utilizzata quando vi siano determinati presupposti: ad esempio, quando i redditi dei genitori sono equivalenti ed il figlio trascorre tempi paritari con la madre ed il padre.

Quanto viene fissato, l’assegno mensile è soggetto a rivalutazione annuale, vale a dire deve essere aggiornato di anno in anno secondo gli indici di adeguamento ISTAT.

Le spese straordinarie

L’assegno periodico copre il mantenimento ordinario del figlio, vale a dire le spese che necessarie per il sostentamento e le altre spese di natura ordinaria, quali alimentazione, abbigliamento, calzature, spese di vitto ed alloggio, ecc.
A queste si aggiungono le spese straordinarie, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura extra ordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio. Queste spese, essendo imprevedibili ed imponderabili, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.
Le spese straordinarie non sono specificate dalla legge. La giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri di riferimento, che sono stati utilizzati per l’elaborazione di Linee guida – Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani, ed il cui scopo è fornire ai magistrati ed agli avvocati dei criteri uniformi per individuare le spese straordinarie, in modo da ridurre i possibili contenziosi sulla rimborsabilità o meno di alcune spese.

In generale, sono considerate spese straordinarie, tra l’altro, le spese mediche e specialistiche, comprese quelle odontoiatriche e oculistiche (ad esempio: ticket sanitari, prescrizioni terapeutiche, apparecchi correttivi, ecc.), le  spese per la scuola, l’istruzione e la formazione (ad esempio: tasse di iscrizione, dotazione libraria, materiale didattico, gite, attività integrative, ecc.), le spese per lo sport e per le attività ricreative.

Di norma, le spese straordinarie sono poste a carico di ciascun genitore in misura del 50%, ma è possibile anche prevedere che siano a carico di uno dei due in misura maggiore, così come è possibile suddividerle tra i genitori per tipologia di spesa. Ad esempio, può essere stabilito che la madre di faccia carico delle spese scolastiche e sportive e che il padre si faccia carico delle spese mediche, ecc.

L’interesse del figlio

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori ed il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno.

La quantificazione tiene conto dell’interesse primario del figlio e del suo diritto di crescere fruendo di risorse economiche adeguate alle proprie esigenze ed agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Contro la violenza sulle donne: le misure contro i maltrattamenti in famiglia

Oggi è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un fenomeno in continua, drammatica crescita che non può e non deve lasciare indifferenti noi operatori del diritto.
Le donne, assieme ai bambini ed agli anziani, sono le principali vittime delle violenze perpetrate all’interno della famiglia. Famiglia che non sempre è il porto sicuro degli affetti, ma alle volte è luogo di violenza, abusi e maltrattamenti.

Per contrastare il fenomeno della violenza domestica nel 2001 è stata varata la legge 154, con cui sono state introdotte specifiche misure a tutela delle vittime di abusi in famiglia (artt. 342 bis e ter del Codice Civile).

Un procedimento rapido e senza eccessivi formalismi

Più esattamente, è stato previsto un procedimento speciale, caratterizzato da particolare speditezza, che permette un intervento tempestivo a protezione delle vittime di maltrattamenti.
Presupposto per l’attivazione di questo procedimento è la sussistenza di un rapporto di convivenza (matrimonio o convivenza di fatto) tra la vittima e l’autore degli abusi.
Il procedimento si svolge davanti al giudice civile e si introduce mediante un ricorso nel quale vanno dettagliatamente indicate le condotte abusanti, supportate da adeguata documentazione (denunce penali, referti medici, fotografie, ecc. ) che dimostri la fondatezza dell’iniziativa.

L’ordine di allontanamento e le altre misure di protezione delle vittime

Di fronte alla condotta di un convivente che sia causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà dei familiari (dunque, non solo aggressioni e violenze fisiche, ma anche costrizioni e pressioni psicologiche), il giudice può emettere, in tempi rapidissimi e anche senza previamente consultare l’altra parte, un provvedimento che ordina al convivente violento la cessazione dei comportamenti abusanti e ne dispone l’immediato allontanamento dalla casa comune.

Il giudice può, altresì, vietare l’avvicinamento alla casa comune ed ai luoghi abitualmente frequentati dai familiari (luogo di lavoro, scuola cui sono iscritti i figli, abitazioni delle famiglie d’origine, ecc.).

Ed ancora, il giudice può condannare il convivente a versare un importo mensile per il mantenimento dei familiari che, diversamente, si troverebbero privi di mezzi di sostentamento.

L’efficacia e la durata delle misure

Il provvedimento antiviolenza è immediatamente efficace, e l’autore degli abusi è tenuto a rispettarlo.

Nel provvedimento il giudice stabilisce le modalità con cui devono essere attute le misure di protezione delle vittime di violenza e può disporre anche l’intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.

Trattandosi di una misura straordinaria, concepita per intervenire nell’emergenza e porre immediatamente rimedio ai maltrattamenti interrompendo la convivenza, il legislatore ne ha stabilito un limite di durata, ritenendo che, una volta allontanato da casa l’autore degli abusi, la vittima possa attivarsi per far cessare definitivamente la convivenza con gli altri strumenti previsti dall’ordinamento (ad esempio, con la richiesta di separazione personale).

L’ordine di protezione, dunque, può durare al massimo dodici mesi da quando viene adottato (la durata in concreto viene stabilita dal giudice nel provvedimento, tenendo conto delle circostanze del caso specifico) e può essere rinnovato soltanto se ricorrono particolari condizioni.

I contratti di convivenza: cosa sono e come funzionano

Tra le novità introdotte dalla legge 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno, vi è la disciplina normativa di contratti di convivenza, vale a dire dei contratti con i quali i conviventi di fatto possono regolare gli aspetti economici della convivenza.

Già prima della riforma, i contratti di convivenza erano ammessi nell’ordinamento, come contratti atipici, la cui validità era riconosciuta dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla dottrina più avanzata. Si trattava, tuttavia, di uno strumento assai poco conosciuto ed utilizzato.

Con la nuova legge, i contratti di convivenza hanno una specifica disciplina normativa: sono infatti previsti i requisiti di forma e sostanza necessari per la validità dell’accordo. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Chi può stipulare i contratti di convivenza?
I contratti di convivenza possono essere stipulati dai “conviventi di fatto“, ovvero da
due persone etero o omosessuali unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale,
non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile,
– che risiedano nello stesso immobile e
– che abbiano registrato la convivenza nell’anagrafe del comune di residenza. 

2. E’ necessaria la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata
Per la validità del contratto di convivenza è necessaria la forma scritta: i contratti di convivenza vanno redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato.
Per poter essere efficace nei confronti dei terzi, il contratto dev’essere iscritto nei registri anagrafici nei quali è registrata la convivenza. La legge, pertanto, stabilisce che il contratto debba essere trasmesso entro 10 giorni dalla sua sottoscrizione al comune di residenza dei conviventi, a cura del professionista (notaio o avvocato) che ha autenticato il contratto.

3. Il contenuto del contratto di convivenza
Il contratto di convivenza ha ad oggetto i rapporti patrimoniali relativi alla vita comune. Non possono essere oggetto di pattuizione contrattuale i rapporti personali tra i conviventi ed i rapporti con i figli.
Il contratto di convivenza può contenere
– l’indicazione della residenza comune,
– le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alla capacità economica e lavorativa dei partner,
– la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni prevista per il matrimonio o di altro regime patrimoniale.

Non è espressamente prevista, ma non neppure è esclusa, la possibilità per i conviventi di regolamentare le conseguenze della cessazione dell’unione, in passato riconosciuta valida dalla giurisprudenza.

4. Il contratto di convivenza può essere modificato?
Il contratto di convivenza può essere modificato in qualsiasi momento, sempre mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.

5. Come si scioglie il vincolo contrattuale?
Il contratto di convivenza si scioglie:
consensualmente, mediante la sottoscrizione da parte di entrambi i conviventi di un atto scritto, autenticato dal notaio o dall’avvocato con cui invalidano il precedente accordo;
per recesso di una sola delle parti: ciascuna parte può rivolgersi ad un notaio o ad un avvocato dichiarando di volersi liberare dai vincoli pattizi. In questo caso, è prevista una tutela per il convivente che abiti nella casa familiare di proprietà dell’altro: più esattamente, la legge 76/2016 stabilisce che la dichiarazione di recesso dovrà contenere il termine non inferiore a 90 giorni per il rilascio dell’abitazione da parte del convivente;
– nel caso in cui uno dei partner contragga matrimonio o unione civile;
– per morte di una delle parti.

6. E’ obbligatorio stipulare i contratti di convivenza?
Regolamentare i rapporti mediante il contratto di convivenza rappresenta una facoltà, un’opportunità per i conviventi, i quali ben possono non stipulare alcun contratto. In questo caso, si applicano le norme sulla convivenza introdotte dalla Legge 76/2016 e, per quanto attiene gli acquisti comune, le norme generali sulla proprietà e sulla comunione dei beni.

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

L’affidamento dei figli se i genitori non sono sposati: perchè è importante rivolgersi al giudice

Le coppie di fatto, cioè non legate da vincolo coniugale, sono sempre più numerose.
Spesso sono soprattutto i giovani che, per varie motivazioni, scelgono di non avere un legame “ufficiale” e di convivere, andando a costituire un nucleo familiare autonomo.

L’ordinamento riconosce una tutela inferiore alla famiglia di fatto rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio per quanto attiene i rapporti tra gli adulti, in quanto il convivente economicamente più debole non ha, ad oggi, le medesime garanzie che sono previste per il coniuge meno abbiente.
Ed infatti, mentre il coniuge (solitamente, la moglie) che dispone di risorse economiche inferiori ha diritto ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il proprio mantenimento, ciò non è previsto per la persona non autonoma finanziariamente che abbia solamente convissuto con il partner, anche se il rapporto è durato a lungo e se, durante la relazione di fatto, veniva aiutata economicamente dal convivente.  Per approfondimenti, si veda la pagina del sito dedicata alla convivenza.

Per quanto riguarda i figli non vi sono differenze tra famiglia di fatto e famiglia legittima.
La recente riforma della filiazione ha, infatti, equiparato integralmente la posizione dei figli, a prescindere dal vincolo che lega i genitori, uniformando anche le norme successorie e la competenza del Tribunale ordinario a decidere sui rapporti genitori-figli.

Se vi sono figli minori, pertanto, quando i genitori si lasciano, dovranno essere regolamentati l’affidamento, la collocazione abitativa ed i tempi che i figli trascorreranno con ciascuno dei genitori, oltre che le modalità e la misura del contributo al loro mantenimento da parte del genitore non convivente.
L’assegno di mantenimento per i figli è dovuto anche se essi sono maggiorenni, purchè non economicamente autosufficienti.
Ed inoltre, così come i figli nati nel matrimonio, i figli nati da coppie di fatto hanno diritto a rimanere a vivere nell’abitazione adibita a casa familiare: la casa dove la famiglia di fatto ha vissuto andrà, pertanto, assegnata al genitore convivente con i figli, a prescindere dal titolo di proprietà.
Tale tutela, al pari di quella economica, è prevista anche in favore dei figli che abbiano raggiunto la maggiore età e non dispongano di redditi propri.

Quando i genitori non sono sposati non è necessario un atto formale che dichiari la separazione personale, obbligatorio, al contrario, in caso di persone sposate: non è necessario, cioè, un provvedimento del giudice che attesti che la coppia non è più tale. Il rapporto è e rimane un rapporto di fatto, irrilevante per l’ordinamento.

Neppure nel caso in cui dall’unione siano nati figli, vi è l’obbligo di rivolgersi al Tribunale.
Ovviamente, l’accesso al Tribunale è necessario quando vi sia un contenzioso tra i genitori, che non riescono ad accordarsi sulla disciplina dei rapporti con i figli.

Diversamente, se cioè vi è intesa tra i genitori, i rapporti con i figli possono essere regolati anche privatamente, sulla base di accordi scritti o anche solo verbali tra le parti.
Anche se redatti per iscritto, tuttavia, questi accordi presentano un notevole limite: la loro attuazione è rimessa alla correttezza ed alla lealtà delle parti e se una delle parti, successivamente alla firma, smette di dare attuazione a quanto convenuto (ad esempio, cessa di versare il contributo mensile per i figli o versa una somma inferiore a quella pattuita), l’altra non ha la possibilità di pretendere l’adempimento nè di ottenere l’esecuzione forzata dell’accordo.
Per questa ragione, è sempre consigliabile far ratificare l’accordo dal Giudice. In questo modo, le regole assumono una veste formale e divengono giuridicamente vincolanti, con maggiori garanzie per le parti e soprattutto per i figli.

Non è invece possibile per le coppie di fatto avvalersi del nuovo strumento della negoziazione assistita, che permette una regolamentazione privata dei rapporti tra i coniugi senza necessario passaggio in Tribunale. Tale strumento è esperibile soltanto per le coppie legate da vincolo coniugale.

La convivenza forzata non impedisce il divorzio

Per poter divorziare è necessario che la separazione personale si sia protratta ininterrottamente per un certo periodo di tempo, e più esattamente per sei mesi, in caso di separazione consensuale, o dodici mesi, qualora la separazione sia giudiziale.
Il termine decorre dalla data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale, quando la separazione abbia seguito il tradizionale iter innanzi al Tribunale (ciò vale sia per la separazione consensuale, sia per quella giudiziale) ovvero dalla data di sottoscrizione dell’accordo di separazione concluso mediante la negoziazione assistita o innanzi all’ufficiale dello stato civile. Lo stabilisce l’art. 3 della legge sul divorzio.

In questo lasso di tempo i coniugi devono aver condotto effettivamente vite separate, senza ricostruzione della comunione materiale e spirituale tipica del matrimonio, senza riconciliarsi.
La riconciliazione non richiede una pronuncia giudiziale, ma un mero comportamento di fatto, determinato dal ripristino della vita matrimoniale tra le parti, con la convivenza e la prosecuzione del progetto di vita comune e della condivisione propria del rapporto coniugale.

Con una recente ordinanza, la Cassazione ha sottolineato che la mera coabitazione dei coniugi separati sotto lo stesso tetto non è di per sè sufficiente a dimostrare la riconciliazione, e dunque a bloccare il divorzio.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava una coppia che aveva convissuto fino a pochi mesi prima del deposito del ricorso per divorzio. Convenuta in giudizio, la moglie aveva tentato di bloccare il divorzio, sostenendo l’intervenuta riconciliazione proprio in considerazione del rapporto di coabitazione.

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconciliazione comporta il ripristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che fonda il matrimonio. La semplice coabitazione, oggi assai frequente a causa della crisi economica, non è decisiva per dimostrare la riconciliazione, ma dev’essere valutata come elemento di prova, unitamente ad altri fattori, quali il comportamento delle parti, anche in sede processuale.
Nella vicenda esaminata, i giudici hanno tenuto conto del fatto che il rapporto tra i coniugi, fin dalla richiesta di separazione, era stato particolarmente conflittuale (il marito aveva presentato domanda di addebito della separazione alla moglie) ed inoltre era stato accertato che i coniugi convivevano, ma in stanze separate ed in un clima di forte tensione.

Per contrastare il divorzio, dunque, non basta dimostrare che la coabitazione non è venuta meno, ma occorre comprovare che l’avvenuto ripristino del consorzio familiare ed il superamento delle condizioni che avevano condotto i coniugi alla decisione di separarsi.

Fonte: Cass. civ. ordinanza n. 2360 del 5.2.2016