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Fino a quando va mantenuto il figlio maggiorenne?

L’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli non cessa con il raggiungimento della maggiore età, ma prosegue fino a che i figli non diventano economicamente autosufficienti.

Secondo la giurisprudenza, l’autosufficienza economica viene raggiunta quando il figlio dispone di redditi propri che gli consentono di condurre una vita autonoma, tenendo conto della formazioni professionale, degli studi effettuati, dell’impegno nella ricerca di un posto di lavoro e delle condizioni economiche della famiglia di provenienza.

In concreto, l’applicazione del criterio della autosufficienza economica è rimessa alla valutazione del giudice che deve considerare le caratteristiche della singola vicenda di fatto tenendo conto di alcuni criteri di massima indicati dalla Corte di Cassazione.

In particolare, nel decidere se il figlio maggiorenne ha ancora diritto ad essere mantenuto dai genitori, il giudice deve svolgere un accertamento di fatto che tenga conto:

– dell’età del figlio (più aumenta l’età, più il figlio maggiorenne ha il dovere di rendersi autonomo dalla famiglia);

– dell’effettivo conseguimento di una formazione professionale e tecnica (se il figlio maggiorenne studia all’università ha diritto ad essere mantenuto);

– dell’impegno rivolto alla ricerca di un posto di lavoro (il figlio maggiorenne che, avendo completato gli studi, non si attiva alla ricerca di un impiego e rimane inerte in una condizione parassitaria, perde il diritto al mantenimento);

– della condotta personale tenuta nel suo complesso dal figlio dopo il raggiungimento della maggiore età (il figlio che continua a rimanere iscritto all’università ma non si impegna negli studi, nè si impegna a cercare un lavoro non ha diritto al mantenimento).

Fonte: Cass. ord. 30491 del 21.11.2019.

Nuovo partner dopo la separazione: come introdurlo ai figli

Una delle questioni più delicate che si pongono dopo la separazione è quella dell’introduzione nella vita dei figli del nuovo compagno o della nuova compagna.

Spesso, infatti, l’inserimento del nuovo partner nella vita dei figli è un passaggio difficile, vissuto con particolare tensione sia dal genitore che dai figli. E molte volte si verificano resistenze da parte dell’altro genitore che, realmente preoccupato per il benessere dei figlio o mosso da gelosia, pone “veti” alla frequentazione tra il figlio e il nuovo compagno dell’ex.

Sotto il profilo giuridico il principio cardine da tenere sempre in considerazione è il principio di bigenitorialità: i figli hanno diritto di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori, e dunque hanno diritto di partecipare alla vita di entrambi i genitori nella sua completezza.

È dunque normale che, se non vi sono problematiche specifiche, il figlio venga a contatto ed abbia un rapporto di frequentazione con i nuovi compagni dei genitori. Ed è normale che il figlio condivida con il genitore momenti quali la nuova convivenza, il matrimonio ed altri eventi della vita del genitore.

Le clausole che alle volte vengono inserite negli accordi di separazione o di divorzio in cui si prevede l’obbligo per i coniugi di introdurre i nuovi compagni in modo graduale nella vita dei figli, così come quelle che vietano i contatti per un certo periodo di tempo, non costituiscono un vero e proprio obbligo giuridico, ma si sostanziano in un impegno morale che, se violato, non comporta l’applicazione di alcuna sanzione.

In mancanza di prescrizioni di legge, non resta che seguire regole di buon senso e fare appello alla sensibilità dei genitori, chiamati ad avere la massima attenzione nell’introdurre un nuovo compagno nella vita dei figli, per evitare agli stessi figli traumi e possibili sofferenze.

Una regola fondamentale è quella di introdurre il rapporto prima di introdurre la persona, vale a dire iniziare a comunicare ai figli la possibilità che il papà o la mamma siano coinvolti in un nuovo rapporto sentimentale, dando il tempo al bambino di elaborare questa eventualità.

Si dovrà,  inoltre, evitare la sovrapposizione dei ruoli: il bambino dovrà avere sempre chiaro che il nuovo fidanzato della mamma o la fidanzata del papà sono figure distinte rispetto ai genitori “veri” e che i genitori “veri” rimarranno sempre il suo punto di riferimento.

Assegnazione della casa familiare e genitori in conflitto

Nella decisione sull’assegnazione della casa coniugale nella separazione, il giudice deve tener conto esclusivamente dell’interesse dei figli. Pertanto, non può disporre la co-assegnazione dell’immobile, previa suddivisone in due distinte unità abitative, qualora il conflitto tra i genitori sia particolarmente acceso e la vicinanza abitativa dei medesimi possa recare turbativa alla crescita equilibrata e serena dei figli minori.

La casa familiare può essere assegnata soltanto in presenza di figli

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, e non a compensare un eventuale divario tra le posizioni economiche dei coniugi.

Il provvedimento di assegnazione ha lo scopo di proteggere i figli, garantendo loro di conservare una continuità, quando meno sotto il profilo abitativo e delle abitudini, di fronte alla disgregazione del nucleo familiare.

L’assegnazione, dunque, va effettuata in favore del coniuge convivente con i figli. In mancanza di figli minori o di figli maggiorenni non autonomi, il giudice non può assegnare la casa coniugale: l’immobile resterà al coniuge che ne è proprietario; se l’immobile è in comproprietà ai due coniugi, si applicheranno le ordinarie regole della comunione.

Se i genitori sono in conflitto, non si può coassegnare la casa coniugale

In una vicenda oggetto di un recente provvedimento della Corte di Cassazione, il marito in sede di separazione aveva chiesto l’assegnazione di una parte dell’ex casa coniugale, sostenendo che i figli minori avrebbero ottenuto un grande beneficio dalla vicinanza con il padre, al quale erano uniti da un forte legame affettivo, e che gli interventi di divisione della casa erano facili da realizzare e non eccessivamente costosi.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, motivando tale decisione con la sussistenza di un’elevata conflittualità tra i coniugi: per i giudici la litigiosità dei coniugi rendeva la coassegnazione contraria all’interesse dei figli, specie in mancanza di un accordo tra le parti circa la facile divisibilità dei vani e considerato che la moglie, nel frattempo, aveva intrapreso una convivenza con un altro uomo.

La sentenza, confermata in appello, non è stata modificata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto inammissibile per ragioni tecniche il ricorso presentato dal marito.

 

Fonte: Cass. Civ. ordinanza 10 novembre 2017, n. 26709.

Entro quanto tempo si può chiedere il disconoscimento di paternità?

La legge prevede precisi termini di decadenza per l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato durante il matrimonio: la madre può proporre l’azione di disconoscimento di paternità entro sei mesi dalla nascita del figlio; il marito entro un anno.

L’azione è imprescrittibile – vale a dire non è soggetta a nessun tipo di limitazione temporale – soltanto per quanto riguarda il figlio: in altre parole, soltanto il figlio, una volta raggiunta la maggiore età, potrà in qualsiasi momento chiedere il disconoscimento della paternità legale.

Il termine di sei mesi per la madre e di un anno per il marito-padre legale è stato previsto, com’è evidente, a tutela del figlio: l’ordinamento protegge prioritariamente la posizione dei minori, ai quali vuole garantire la certezza dello status e della condizione di figlio, a discapito della verità biologica.

Il termine di un anno per il marito

Il marito può disconoscere la paternità del figlio avuto dalla moglie entro un anno dalla nascita del bambino oppure entro un anno dal momento in cui è venuto a conoscenza della non paternità, ad esempio, perchè il figlio è nato da una relazione extraconiugale della moglie, oppure perché il marito stesso scopre di essere affetto da impotenza a generare).

Una volta decorso questo termine, il figlio non può più essere disconosciuto dal padre legale.

Non basta il sospetto dell’adulterio

La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta sul tema in una decisione relativa ad un caso di adulterio scoperto dal marito a distanza di tempo dalla nascita del figlio.

La Cassazione ha ribadito che il termine di un anno si conteggia dalla data di effettiva conoscenza dell’adulterio, mentre il mero sospetto dell’adulterio non fa decorrere il termine. Spetta al marito che promuove l’azione di disconoscimento fornire la prova del momento in cui egli è venuto a sapere con certezza del tradimento della moglie.

La scoperta dell’adulterio va intesa – sottolinea la Cassazione – non come semplice sospetto, ma come la conoscenza certa di un fatto riferito all’epoca del concepimento e costituito da una vera e propria relazione della moglie con un altro uomo oppure da un incontro idoneo a generare un figlio. Da questa effettiva conoscenza comincia a decorrere il termine di un anno di decadenza dell’azione.

Al contrario, il semplice sospetto del tradimento e della possibile mancanza di paternità non fa decorrere il termine di un anno, come il più contiene il meno, chiariscono i giudici della Cassazione.

Fonte: Cassazione civile, sentenza n. 19732/2017 dell’8 agosto 2017.

Quando vanno disposti gli accertamenti fiscali nel divorzio?

Il giudice del procedimento di divorzio è tenuto ad effettuare gli accertamenti dei redditi mediante indagini di polizia tributaria se le prove acquisite durante l’istruttoria non sono sufficienti a dimostrare l’effettiva situazione economica degli ex coniugi.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in una recentissima decisione in materia di assegno divorzile.

Il Caso

La vicenda giunta all’esame della Cassazione riguardava un ricorso presentato da una ex moglie alla quale era stato riconosciuto dal Tribunale in primo grado un assegno post matrimoniale di 500,00 euro, poi ridotto a 250,00 euro dalla Corte d’appello.

La ricorrente lamentava che i giudici dell’appello avevano determinato il reddito del coniuge soltanto sulla base della documentazione che il marito aveva fornito in modo incompleto e senza tener conto degli ordini di esibizione di documentazione integrativa disposti dal giudice.

L’ex moglie aveva svolto specifiche contestazioni sui redditi dichiarati dal marito ed aveva indicato ai giudici che il coniuge svolgeva un’attività imprenditoriale non dichiarata fiscalmente, ma pubblicizzata anche con uno specifico biglietto da visita e riscontrabile nei suoi movimenti bancari.

L’ex moglie sosteneva che, a fronte di quanto rappresentato in ordine all’attività del marito, i giudici dell’appello avrebbero dovuto provvedere all’accertamento dei redditi del marito mediante indagini di polizia tributaria prima di ricavare, in contrasto con la sentenza di primo grado, un reddito inferiore a quello accertato dal Tribunale e tale da legittimare la riduzione dell’assegno disposto in prima istanza. Gli accertamenti, invece, non erano stati disposti.

La decisione

La Cassazione ha accolto il ricorso dell’ex moglie, affermando che il giudice del divorzio può esimersi dal disporre gli accertamenti fiscali soltanto quando abbia raggiunto, in altro modo, la prova dei redditi ; diversamente, è tenuto ad approfondire la situazione mediante indagini di polizia tributaria.

Il potere del giudice di disporre indagini sui redditi e sui patrimonio dei coniugi rientra nella discrezionalità del giudice, può essere attivato dal magistrato anche d’ufficio e non è vincolato all’istanza di parte.

Qualora gli accertamenti fiscali vengano richiesti dalla parte, il giudice può rigettare la richiesta, purché il rigetto sia correlabile ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza delle prove acquisite.

Nella vicenda oggetto di causa, questa valutazione di sufficienza delle prove raccolte e di non necessità delle indagini fiscali non era stata compiuta e dunque la Corte di Cassazione, accogliendo la domanda dell’ex moglie, ha rinviato il caso ai giudici di merito per una nuova pronuncia.

Fonte: Cassazione civile ordinanza del 14 settembre 2017, n. 21359.

Genitori in conflitto: interviene il coordinatore genitoriale

Nelle separazioni ad alta conflittualità, il coordinatore genitoriale, un professionista esterno alla famiglia e super partes nominato dal giudice, ha la funzione di proteggere i minori dalle possibili conseguenze negative della litigiosità dei genitori, affiancando e supportando i genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’affidamento dei figli.

In una recente sentenza relativa ad un caso di separazione caratterizzata da un’elevata conflittualità tra i coniugi, il Tribunale di Mantova ha disposto che i rapporti genitori-figli vengano monitorati da una figura terza rispetto alla famiglia, il cosiddetto coordinatore genitoriale o educatore professionale, un professionista incaricato di mediare il conflitto e fornire supporto concreto ai genitori.

Più esattamente, al coordinatore genitoriale sono stati assegnati i seguenti compiti:
a) monitorare l’andamento della relazione genitori-figli, mediando i rapporti e fornendo indicazioni correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori;
b) aiutare i genitori nelle decisioni relative ai figli, vigilando sull’osservanza del calendario delle visite con il genitore non convivente ed in caso di disaccordo dei genitori, assumendo le decisioni opportune nell’interesse dei figli.
c) Il coordinatore genitoriale è tenuto, poi, a riferire l’esito del suo operato al Giudice Tutelare.

Il caso

La sentenza in oggetto è stata emessa a conclusione di un procedimento di separazione caratterizzato da un’accesa litigiosità tra i coniugi, genitori di due figli minori.
I coniugi avevano formulato entrambi domanda di addebito della separazione (la moglie sostenendo l’infedeltà del marito, il marito rappresentando il distacco affettivo ed atteggiamenti offensivi della moglie) e nel corso del giudizio avevano manifestato un profondo risentimento reciproco.
La conflittualità tra gli adulti si era proiettata anche nei rapporti con i figli: la moglie aveva più volte impedito gli incontri tra i figli ed il padre (genitore non convivente), frapponendo ostacoli alle visite ed impedendo i contatti telefonici, aveva inoltre interrotto indebitamente la frequentazione tra i minori e la famiglia paterna, come accertato dall’indagine dei Servizi Sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.).
Peraltro, i Servizi Sociali e la C.T.U. avevano verificato, in ordine all’affidamento dei figli, che entrambi i genitori erano in grado di gestire singolarmente i minori e che, pertanto, la modalità di affidamento meglio rispondente all’interesse dei figli era l’affidamento condiviso.

La decisione

A fronte di tale delicata situazione, il Tribunale ha aderito alle conclusioni degli esperti (consulente tecnico e Servizi sociali), disponendo l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori.

La diversa previsione dell’affidamento ad uno solo dei genitori (affidamento esclusivo) richiede, infatti, che risulti dimostrata l’inidoneità educativa o la manifesta carenza dell’altro genitore, cosa non presente nel caso in esame, dato che la consulenza e gli operatori sociali avevano riconosciuto la capacità genitoriale di ciascuno dei coniugi singolarmente.

E’ stato poi previsto l’esercizio separato della responsabilità genitoriale nei tempi in cui i figli sono con ciascuno dei genitori ed è stata disposta la collocazione abitativa dei figli con la madre, dopo aver accertato che i figli avevano instaurato un più solido legame affettivo con essa e che la madre era in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica.

Le condotte ostruzionistiche della madre, consistite nell’aver ostacolato i rapporti padre-figli, sono state sanzionate con la condanna della signora a risarcire i danni sofferti da quest’ultimo in conseguenza del comportamento ostacolante, in attuazione dell’art. 709 ter c.p.c. L’importo del risarcimento è stato fissato, in via equitativa in 1.000,00 euro.

In una vicenda così conflittuale è stata lungimirante la decisione del Tribunale di non lasciare i genitori da soli a gestire l’affidamento condiviso dopo la separazione: seguendo le indicazioni della C.T.U., i giudici di Mantova hanno previsto l’affiancamento di un coordinatore genitoriale, una figura professionale specializzata, con compiti di supporto, mediazione, risoluzione dei conflitti , oltre che di vigilanza sull’attuazione delle regole dettate nella sentenza e di intervento diretto nell’assunzione delle decisioni relative ai figli in caso di disaccordo dei genitori.

Del suo operato il coordinatore genitoriale dovrà riferire al Giudice Tutelare nel termine assegnato dal Tribunale.

 

Fonte: Tribunale di Mantova, sentenza 5.5.2017 (est. Bernardi)

Assegno di separazione e assegno di divorzio: i presupposti sono diversi

Dopo il clamore mediatico suscitato dalla recentissima sentenza in materia di assegno divorzile, la Cassazione ha chiarito che l’assegno per il coniuge nella separazione e l’assegno divorzile sono sorretti da presupposti diversi.

L’assegno di mantenimento fissato nella separazione, infatti, è finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di conservare il tenore di vita di cui godeva quando era ancora convivente con l’altro.

 I coniugi separati sono ancora sposati

Nella separazione, infatti, il vincolo del matrimonio non viene meno, ma è soltanto allentato: sono sospesi – rilevano i giudici della Cassazione – soltanto i doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli obblighi economici rimangono, assumendo forme diverse in considerazione della nuova situazione di fatto che vede i coniugi vivere separati.

Se durante la convivenza matrimoniale ciascuno dei coniugi provvede al mantenimento della famiglia in proporzione alle sue condizioni economiche, nella separazione coniugale il coniuge più abbiente deve versare all’altro un assegno periodico, proporzionato ai redditi, per contribuire al suo mantenimento.

La solidarietà economica viene meno solo con l’addebito della separazione

Nella separazione, dunque, permane il dovere di contribuire al mantenimento del coniuge meno abbiente.
Questo dovere di solidarietà economica viene meno soltanto in caso di addebito della separazione: se il coniuge economicamente più debole viene riconosciuto responsabile della crisi coniugale, per aver violato i doveri coniugali, perde il diritto all’assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento va calcolato secondo il tenore di vita

L’obbligo di assistenza materiale tra i coniugi separati si realizza mediante il riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente e che non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva, assieme all’altro, prima della separazione.

Nel quantificare l’assegno di mantenimento del coniuge separato si considera il tenore di vita consentito dalle risorse economiche di entrambi i coniugi: la prima verifica da fare è volta ad accertare se il coniuge che richiede l’assegno disponga di mezzi economici tali da permettergli o meno di conservare quel tenore di vita.

Per far ciò, il giudice dovrà tenere in considerazione la condizione economica complessiva del richiedente (i redditi, le proprietà, la disponibilità della casa coniugale, ecc.).

Una volta accertato che il coniuge che richiede l’assegno non ha mezzi adeguati a conservare il precedente tenore di vita, si procede alla quantificazione dell’assegno mediante una valutazione comparativa delle condizioni economiche di ciascun coniuge, nonché di particolari elementi quali, ad esempio, la durata della convivenza.

L’assegno di divorzio è diverso

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato è cosa ben diversa dall’assegno divorzile: i presupposti e la normativa sono distinti e autonomi.

L’elemento essenziale di differenziazione è che con il divorzio il vincolo matrimoniale viene meno e con esso anche i doveri matrimoniali, incluso il vincolo di solidarietà coniugale, come recentemente affermato dalla sentenza n. 11504/2017 della Cassazione.

 

Fonte: sentenza Cassazione civile n. 12196 del 16.5.2017

 

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Adozione: quando l’età non conta

Il Tribunale dei minorenni di Bologna con un provvedimento innovativo ha concesso ad una coppia una deroga ai limiti d’età previsti per l’adozione.
Il dato burocratico dell’età è stato ritenuto secondario rispetto alla possibilità di dare ad un bambino in condizione di abbandono la possibilità di crescere in una famiglia.

La vicenda

Marco e Laura (i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy) sono due coniugi italiani, sposati da circa sette anni, Marco ha 65 anni mentre Laura ne ha 51; stante l’impossibilità di avere figli biologici, hanno deciso di “donare” la vita in un modo forse ancora più meraviglioso e, sicuramente, più altruistico: adottando.

L’idoneità all’adozione internazionale

La coppia segue tutti i passaggi necessari: si rivolge al Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna e avvia le pratiche per richiedere l’idoneità all’adozione internazionale; durante la prima fase i coniugi vengono sottoposti a vari colloqui con psicologi ed esperti, al fine di valutare le loro capacità genitoriali e personali. Purtroppo, come a volte succede, il percorso subisce una prima interruzione: il T.M. decreta l’inidoneità dei coniugi all’adozione internazionale.

Marco e Laura però non si perdono d’animo e propongono reclamo avverso il provvedimento. La Corte d’Appello di Bologna accoglie il reclamo e riconosce la piena attitudine di Marco e Laura all’adozione internazionale.

I coniugi hanno finalmente la possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, accogliendo un bambino presso il proprio nucleo.

L’Ente e l’abbinamento con il bambino

A questo punto, infatti, non rimane che rivolgersi ad un Ente accreditato che curi le pratiche dell’abbinamento: quel percorso, cioè, che accosta un bambino straniero in stato di adottabilità con i due futuri nuovi genitori, attraverso una serie di passi che porteranno il minore ad entrare gradualmente nella nuova famiglia adottiva.

La coppia segue tutti i corsi predisposti dall’Ente e nel frattempo vengono presi i contatti con un istituto sudamericano: in pochi mesi si concretizza l’abbinamento e la coppia conosce – tramite fotografie e relazioni – il piccolo Francisco (anche questo nome di fantasia) che, a sua volta, riceve informazioni sulla sua futura famiglia italiana che si sta preparando ad accoglierlo.

L’autorizzazione negata

Resta da ottenere l’autorizzazione da parte della C.A.I. (Commissione per le Adozioni Internazionali) e qui la storia di Marco e Laura affronta un nuovo ostacolo: dalla Commissione, infatti, giunge una notizia “inaspettata”: c’è un problema con l’età di Marco.

Da un controllo sulle età dei genitori e del minore, è risultato che Marco ha 10 anni e 5 mesi più del piccolo Francisco e questo rende inidonea la coppia.

La Legge sull’adozione (legge n. 184/1983), infatti, prevede che tra il figlio minore e i genitori debbano intercorrere più di diciotto anni e meno di quarantacinque anni: tale forbice può essere parametrata anche solo ad uno dei coniugi (se più giovane), purché l’altro non superi di più di dieci anni il limite massimo imposto dalla legge.

Nel caso, poiché Marco ha 65 anni, la coppia avrebbe potuto adottare un bambino dai 10 anni in su, perché in tal modo non si sarebbe oltrepassata la “linea limite” dei 45+10 anni tracciata dalla deroga normativa. Francisco, invece, ha solo 9 anni e mezzo.

Lo sgomento dei coniugi è inevitabile, soprattutto considerati i mesi di attesa e di preparazione.

Il ricorso al Tribunale dei minori

Ma neppure questo nuovo ostacolo ferma Marco e Laura: depositano un nuovo ricorso al Tribunale dei minorenni per chiedere una deroga al limite della differenza d’età, tenendo conto dell’interesse del minore ad essere adottato.

Nel ricorso, i coniugi rappresentano le circostanze specifiche della vicenda: il bambino era di fatto già entrato “in contatto” con i futuri genitori (seppur “solo” attraverso foto e informazioni) ed era stato già“preparato” al suo futuro ingresso in una famiglia che lo avrebbe potuto finalmente crescere serenamente; a questo si aggiungeva poi che il minore appartiene ad una minoranza etnica (afro-colombiana) e tale caratteristica, unita all’età ormai pre-adolescenziale, avrebbe sicuramente compromesso una futura adozione nazionale/internazionale; erano trascorsi già diversi anni dal momento in cui il bambino era stato dichiarato in stato di adottabilità e affidato presso un istituto familiare. Doveva assolutamente considerarsi, infine, come il limite massimo di dieci anni prescritto dalla Legge veniva oltrepassato di soli cinque mesi e questo non poteva certo pregiudicare il benessere di un minore, il quale deve venire sempre posto prima di ogni cosa.

La decisione

L’esito del ricorso non era affatto scontato. I precedenti giurisprudenziali sono pochi ed era il primo caso di questo tipo che il Tribunale per i minori di Bologna si trovava ad affrontare.

Ma tutto si è risolto al meglio: il ricorso è stato accolto in tempi rapidi (due settimane soltanto) e il T.M. ha riconosciuto la deroga per il caso specifico di Marco e Laura, concedendo l’autorizzazione a procedersi con l’adozione di Francisco.

Ciò che il Tribunale ha considerato prioritario è stato salvaguardare l’interesse del minore: per Francisco c’era il concreto rischio di non poter essere più adottato a causa dell’età e degli altri fattori indicati sopra.

Grazie alla sensibilità dei giudici ed alla determinazione di Marco e Laura, Francisco potrà avere un futuro e una famiglia in Italia.

(Avv. Federico Tufano)

Fonte: decreto del T.M. dell’Emilia Romagna dell’11-22 maggio 2017.

Disconoscimento di paternità: la scelta del cognome spetta al figlio

Il padre legale (marito della madre biologica) non può opporsi al disconoscimento di paternità del figlio nato in costanza di matrimonio. Conoscere la verità biologica è un diritto del figlio che non può essere compresso in assenza di concreto pregiudizio per il figlio.

Una volta accertata la paternità biologica in capo ad un’altra persona, soltanto il figlio può decidere se conservare il cognome del marito della madre. Il diritto al nome è, infatti, di un diritto personalissimo che spetta soltanto al diretto interessato,

Questo in estrema sintesi, quanto affermato dai giudici della Corte di Cassazione in una recente sentenza.

Il caso

Il curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale di Milano, aveva proposto azione di disconoscimento della paternità di un minore, adolescente, nato durante il matrimonio da due persone sposate, ma frutto di una relazione extraconiugale della madre con un’altra persona.

Il marito della madre (padre legale del ragazzo) aveva contestato la richiesta di disconoscimento di paternità promossa dal curatore e si era opposto al cambiamento del cognome del figlio, inevitabile conseguenza del disconoscimento.

Le domande del padre legale erano state rigettate sia in primo grado che in appello, in quanto alla luce delle dichiarazioni testimoniali e dell’esito della consulenza genetica da cui risultava l’incompatibilità biologica tra il minore ed il padre legale, i giudici avevano disconosciuto la paternità.

Il padre aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare l’interesse del minore rispetto all’azione di disconoscimento di paternità che aveva l’effetto di travolgere la vita del ragazzino, minandone la serenità e l’equilibrio, con effetti imprevedibili nel contesto familiare e scolastico. A sostegno, il ricorrente invocava l’art. 30 della Costituzione che stabilisce che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità“.
Per le stesse ragioni, il padre legale sosteneva, inoltre, che il ragazzo avrebbe dovuto conservare il suo cognome, avendolo portato fin dalla nascita.

Il padre legale non può opporsi al disconoscimento

Le istanze del padre legale sono state respinte dalla Corte di Cassazione.

Riguardo al disconoscimento di paternità, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’art. 30 della Costituzione – invocato dal padre – vada inteso nel senso che è stata rimessa al legislatore la scelta delle procedure che permettono di ottenere il disconoscimento di paternità e di fissare le modalità per far valere la paternità naturale tenendo conto dell’ interesse del minore. Una volta valutata l’opportunità dell’accertamento non esiste un potere di vietare l’accertamento della paternità biologica.
Nella vicenda in esame i giudici di primo grado e d’appello avevano svolto un’accurata valutazione dell’interesse del figlio a conoscere la verità biologica, ritenendo che non vi fosse un concreto pericolo per il figlio e che anzi lo stesso avesse diritto di conoscere la verità sulle sue origini.

La più recente evoluzione interpretativa ha accresciuto l’importanza della verità biologica rispetto al dato giuridico, riconoscendone primario rilievo costituzionale.
Affermano i giudici: non si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sonno compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica e il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini. L’importanza della verità biologica è data anche dal fatto che le azioni volte all’accertamento dello status sono imprescrittibili per il figlio.

La discendenza biologica é elemento dell’identità personale la cui tutela é garantita a livello costituzionale. Conoscere la propria identità biologica risponde all’interesse del figlio, che ha diritto alla propria identità personale e all’affermazione d un rapporto di filiazione veridico.

Nella vicenda l’interesse del minore a conoscere la verità era stato ampiamente vagliato, e i giudici avevano ritenuto che la conoscenza della verità avesse un valore positivo per il figlio non contrastato dal rischio di un pregiudizio concreto, considerato che non era in discussione la bontà della relazione con il padre legale e che anche sul padre biologico non poteva essere espresso un giudizio negativo, anche perché aveva mostrato un serio interesse nei confronti del ragazzo.

La scelta del cognome spetta al figlio

Quanto alla scelta del cognome, la Cassazione ha chiarito che il padre legale non ha legittimazione al riguardo. Il diritto al nome é diritto di natura personalissima e pertanto solo il figlio, diretto interessato può decidere se mantenere il vecchio cognome.

 

Fonte: Corte di Cassazione sentenza civile n. 4020/2017 del 15.2.2017

Se il figlio lascia il lavoro, non può pretendere di essere mantenuto dai genitori

Se il figlio maggiorenne lascia un lavoro a tempo indeterminato non può chiedere che al suo mantenimento provvedano i genitori.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione in una recentissima sentenza, affrontando la vicenda di un padre che chiedeva la revoca dell’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia, la quale, già da tempo maggiorenne, aveva lasciato un posto di lavoro a tempo indeterminato optando per un lavoro a tempo determinato.

La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione dei giudici dell’appello, i quali da un lato avevano valutato che l’età della figlia era elemento sufficiente ad escludere che dovesse essere ancora mantenuta dai genitori, dall’altro avevano ritenuto che la scelta di lasciare un posto di lavoro a tempo indeterminato non facesse rinascere l’obbligo di mantenimento in capo ai genitori.

Al riguardo, l’orientamento della giurisprudenza, oramai consolidato, è il seguente: una volta raggiunta la capacità lavorativa e l’indipendenza economica, la successiva perdita dell’occupazione non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento. Nello stesso senso la Corte di Cassazione si è espressa più volte  (v. sentenze n. 1761 del 2008, n. 26259 del 2005).

Fonte: Corte di Cassazione sentenza n. 6509 del 14.3.2017