Articoli

Stepchild Adoption: per la Cassazione è sì

Prima pronuncia della Corte di Cassazione in merito ad un caso di adozione del figlio biologico del partner in una coppia omosessuale (cd. stepchild adoption), questione sulla quale manca, come ho già evidenziato in un precedente articolo del blog, una disciplina normativa.
Ecco, sintesi, la vicenda giunta al vaglio dei giudici delle leggi: una coppia di donne, legate da una relazione affettiva molto forte e dal progetto, condiviso, di costruire una famiglia, decidono concordemente di mettere al mondo un figlio. A tale scopo, una delle due ricorre alla fecondazione assistita all’estero. Nasce così una bimba, figlia biologica di una delle due partner, che vive con entrambe in un contesto familiare e di relazioni affettive, sociali e scolastiche analogo quello di tutte le bambine della sua età. La compagna della madre (cd. madre sociale) si rivolge al tribunale chiedendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitoriale già di fatto in essere mediante l’adozione della minore ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge 184/83 (adozione in casi speciali).
Il Tribunale per i minorenni, prima, e la Corte d’Appello, poi, accolgono la domanda, avendo verificato – dopo approfondite indagini – che ciò risponde all’interesse della bambina, dato il profondo legame sussistente e la relazione genitoriale a tutti gli effetti presente anche con la madre sociale.
La decisione della Corte d’Appello viene impugnata dal Procuratore della Repubblica che contesta due profili: da un lato, la mancata nomina di un curatore speciale a tutela degli interessi della minore della cui adozione si discute, dall’altro, l’insussistenza dello stato di abbandono della minore che escluderebbe, in sè, la possibilità di poterla dichiarare adottabile.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi di ricorso della Procura, ritenendo non obbligatoria la nomina di un curatore speciale del minore per l’adozione in casi particolari.
Quanto allo stato di abbandono – specifica la Cassazione – solo l’adozione legittimante richiede come presupposto indefettibile lo stato di abbandono del minore; per l’adozione in casi speciali, quale quella richiesta dalla madre sociale, è sufficiente che venga constatata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo, e dunque anche la mera impossibilità giuridica, presupposto presente nel caso in esame.
Insomma, i motivi contestati dalla Procura, relativi essenzialmente alla regolarità formale della procedura, sono stati ritenuti infondati, con conseguente conferma della pronuncia di adozione della minore.

L’adozione del figlio della partner nella coppia same-sex è dunque possibile, anche se in forma di adozione speciale, non legittimante, e non come adozione piena. Per le differenze tra i due tipi di adozione, vi invito a leggere la pagina del sito dedicata alle adozioni.

Fonte: Cassazione civile sentenza n. 12962 del 22.6.2016

Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

I contratti di convivenza: cosa sono e come funzionano

Tra le novità introdotte dalla legge 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno, vi è la disciplina normativa di contratti di convivenza, vale a dire dei contratti con i quali i conviventi di fatto possono regolare gli aspetti economici della convivenza.

Già prima della riforma, i contratti di convivenza erano ammessi nell’ordinamento, come contratti atipici, la cui validità era riconosciuta dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla dottrina più avanzata. Si trattava, tuttavia, di uno strumento assai poco conosciuto ed utilizzato.

Con la nuova legge, i contratti di convivenza hanno una specifica disciplina normativa: sono infatti previsti i requisiti di forma e sostanza necessari per la validità dell’accordo. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Chi può stipulare i contratti di convivenza?
I contratti di convivenza possono essere stipulati dai “conviventi di fatto“, ovvero da
due persone etero o omosessuali unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale,
non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile,
– che risiedano nello stesso immobile e
– che abbiano registrato la convivenza nell’anagrafe del comune di residenza. 

2. E’ necessaria la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata
Per la validità del contratto di convivenza è necessaria la forma scritta: i contratti di convivenza vanno redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato.
Per poter essere efficace nei confronti dei terzi, il contratto dev’essere iscritto nei registri anagrafici nei quali è registrata la convivenza. La legge, pertanto, stabilisce che il contratto debba essere trasmesso entro 10 giorni dalla sua sottoscrizione al comune di residenza dei conviventi, a cura del professionista (notaio o avvocato) che ha autenticato il contratto.

3. Il contenuto del contratto di convivenza
Il contratto di convivenza ha ad oggetto i rapporti patrimoniali relativi alla vita comune. Non possono essere oggetto di pattuizione contrattuale i rapporti personali tra i conviventi ed i rapporti con i figli.
Il contratto di convivenza può contenere
– l’indicazione della residenza comune,
– le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alla capacità economica e lavorativa dei partner,
– la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni prevista per il matrimonio o di altro regime patrimoniale.

Non è espressamente prevista, ma non neppure è esclusa, la possibilità per i conviventi di regolamentare le conseguenze della cessazione dell’unione, in passato riconosciuta valida dalla giurisprudenza.

4. Il contratto di convivenza può essere modificato?
Il contratto di convivenza può essere modificato in qualsiasi momento, sempre mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.

5. Come si scioglie il vincolo contrattuale?
Il contratto di convivenza si scioglie:
consensualmente, mediante la sottoscrizione da parte di entrambi i conviventi di un atto scritto, autenticato dal notaio o dall’avvocato con cui invalidano il precedente accordo;
per recesso di una sola delle parti: ciascuna parte può rivolgersi ad un notaio o ad un avvocato dichiarando di volersi liberare dai vincoli pattizi. In questo caso, è prevista una tutela per il convivente che abiti nella casa familiare di proprietà dell’altro: più esattamente, la legge 76/2016 stabilisce che la dichiarazione di recesso dovrà contenere il termine non inferiore a 90 giorni per il rilascio dell’abitazione da parte del convivente;
– nel caso in cui uno dei partner contragga matrimonio o unione civile;
– per morte di una delle parti.

6. E’ obbligatorio stipulare i contratti di convivenza?
Regolamentare i rapporti mediante il contratto di convivenza rappresenta una facoltà, un’opportunità per i conviventi, i quali ben possono non stipulare alcun contratto. In questo caso, si applicano le norme sulla convivenza introdotte dalla Legge 76/2016 e, per quanto attiene gli acquisti comune, le norme generali sulla proprietà e sulla comunione dei beni.

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

Le unioni civili in 10 punti

Dopo la faticosa conclusione dell’iter parlamentare,  la legge sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà) é stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 118 del 21 maggio scorso come Legge n. 76 del 20.5.2016.

Si tratta di una epocale riforma del diritto di famiglia, oggetto ampio ed acceso dibattito anche nella società civile.
Con la nuova legge 76/2016 viene introdotta nel nostro ordinamento, oltre alla regolamentazione delle convivenze di fatto, la disciplina normativa delle unioni tra persone dello stesso sesso, del tutto assente in precedenza. Ne esaminiamo in sintesi, i principali elementi.

1. Cos’è l’unione civile?

Le unioni civili sono un istituto riservato alle coppie same sex e si avvicinano, per molti profili, al matrimonio.
L’unione civile viene definita dalla legge “una formazione sociale specifica” tutelata ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, ma non vi è dubbio alcuno che si tratti di un istituto di diritto di famiglia.

2. Come si costituisce

L’unione civile si costituisce con le stesse modalità del matrimonio civile: mediante una dichiarazione resa dalle parti all’Ufficiale di Stato civile alla presenza di due testimoni.
A differenza del matrimonio, la celebrazione dell’unione civile non dev’essere preceduta dalle pubblicazioni.

3. La scelta del cognome

Diversa dal matrimonio è la disciplina del cognome: mentre nel matrimonio la donna assume il cognome del marito, nell’unione civile le parti hanno la possibilità di scegliere di utilizzare un cognome comune, scegliendolo tra i loro, anteponendolo o posponendolo al proprio. L’uso del cognome comune cessa in caso di scioglimento del vincolo.

4. I diritti e doveri reciproci

Con l’unione civile, i partner acquisiscono reciprocamente una serie di diritti e doveri, analoghi a quelli del matrimonio, ed in particolare:
il diritto – dovere all’assistenza morale e materiale
– il dovere di coabitazione
– l’obbligo di contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanza e alle proprie capacità di lavoro, professionale e domestico.

Come nel matrimonio, le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune.

Nei primi commenti alla normativa, la dottrina ha sottolineato la mancata previsione dell’obbligo di fedeltà per l’unione civile: secondo alcuni interpreti, l’obbligo di fedeltà è comunque presente, quale elemento implicito del dovere di assistenza morale e materiale; altri, invece, hanno evidenziato come in realtà l’evoluzione dei costumi e della giurisprudenza abbia nel tempo notevolmente ridimensionato l’importanza dell’obbligo di fedeltà nel matrimonio, svuotandolo di contenuto e rilievo. Dalla violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale derivano oggi possibili conseguenze soltanto per ciò che attiene l’addebito della separazione, istituto non previsto per le unioni civili.
Mancando la separazione personale (e conseguentemente l’addebito), la violazione dei doveri nascenti dall’unione civile rileverà soltanto ai fini di un’eventuale domanda di risarcimento del danno e, in caso di scioglimento dell’unione, ai fini della quantificazione dell’eventuale assegno di mantenimento per la parte economicamente più debole.

5. Il regime patrimoniale

Identico al matrimonio è il regime patrimoniale dell’unione civile: in mancanza di diversa scelta delle parti, si applica la comunione legale prevista per i coniugi.

6. Si applicano le norme sul matrimonio

Il comma 20 dell’art. 1 della legge 76/2016 stabilisce espressamente che all’unione civile si applicheranno soltanto le norme del codice civile relative al matrimonio espressamente richiamate dalla legge stessa; si applicheranno, inoltre, tutte le altre norme che si riferiscono al matrimonio (previste in leggi, regolamenti, atti amministrativi, contratti collettivi) “al solo fine di assicurare l’effettività di tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile“.
Tra le norme del codice civile richiamate dalla legge 76/16 si segnalano: l’art. 342 ter c.c. (ordini di protezione contro la violenza in famiglia), gli artt. 65 e 68 (effetti della dichiarazione di morte presunta); le norme in materia di nullità del vincolo (comma 5); le norme in materia di regime patrimoniale e delle convenzioni e di alimenti (comma 19); gli artt. 2118 e 2120 (indennità dovute al lavoratore); 116 (unione contratta dallo straniero in Italia), 146 (giusta causa di allontanamento e sequestro), 2647, 2653, 2569 (trascrizione).

7. In caso di morte di una persona unita civilmente

Ai fini successori la posizione dell’unito civilmente è equiparata a quella del coniuge per quanto attiene l’indegnità, la quota di legittima, l’ordine di chiamata nella successione legittima, la collazione ed il patto di famiglia.

8. Amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione

Inoltre, la persona unita civilmente assume un ruolo specifico nell’amministrazione di sostegno: il comma 15 dell’art. 1 della legge 76/2016 prevede che il Giudice tutelare debba preferire, dove possibile, nella scelta dell’amministratore di sostegno, la persona unita civilmente al beneficiario. Inoltre, l’unito civilmente può promuovere le procedure di interdizione ed inabilitazione.

9. Come si scioglie l’unione civile

L’unione civile si scioglie nei seguenti casi:
morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti
– in caso di sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
– per volontà di uno o di entrambi i componenti dell’unione. In questo caso, la procedura per lo scioglimento prevede che una o entrambe le parti debbano dichiarare la volontà di scioglimento innanzi all’Ufficiale di Stato civile e successivamente, decorsi tre mesi, chiedere al Tribunale lo scioglimento dell’unione.
Allo scioglimento dell’unione civile si applicano quasi tutte le norme del divorzio. Non è prevista, come detto, la separazione legale, ma soltanto un periodo di separazione di fatto, della durata di 3 mesi.

10. Quando diverranno effettive le unioni civili?

Le norme sulle unioni civili entreranno in vigore il 5 giugno  2016. Per la piena applicazione occorrerà, tuttavia, attendere l’emanazione dei decreti attuativi relativi, tra l’altro, alla tenuta dei Registri dello Stato civile (art. 1, comma 34  della legge). Presumibilmente, dunque, sarà possibile celebrare le prime unioni civili il prossimo autunno.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76

Stepchild adoption: la parola ai giudici

Le norme sull’adozione del figlio del partner (stepchild adoption) nelle coppie dello stesso sesso, originariamente presenti nel DDL Cirinná, sono state stralciate dalla stesura finale del progetto di legge approvata dalla Camera di deputati l”11 maggio scorso. Nella legge sulle unioni civili  di prossima entrata in vigore é così rimasta una lacuna normativa che la giurisprudenza si trova a dover colmare, alla luce delle emergenze sociali che premono per il riconoscimento di nuove forme di genitorialità.
Risale a qualche settimana fa la pubblicazione di una nuova sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha riconosciuto l’applicabilità dell’istituto dell’adozione in casi particolari (ex art. 44, lettera d), legge 184/1983) del figlio nell’ambito di una coppia omosessuale.
La sentenza è passata alla cronaca per essere la prima pronuncia riguardante una coppia di uomini e il figlio nato all’estero da fecondazione eterologa. E’ anche il primo caso in cui la Procura, che pure aveva espresso parere contrario, non ha impugnato la decisione, consentendone così il passaggio in giudicato.

Il caso deciso dal Tribunale dei minori

La vicenda riguardava, più specificamente, una coppia omosessuale aveva contratto matrimonio in Canada ed in Canada era nato il figlio, con maternità surrogata a seguito di fecondazione in vitro, come consentito dalla legge canadese; dalla nascita – cui entrambi i coniugi avevano assistito – il neonato era divenuto a tutti gli effetti loro figlio, secondo la legge canadese, e con loro era rimasto dapprima in Canada, poi in Italia, dove veniva cresciuto dalla coppia omogenitoriale con il supporto delle rispettive famiglie d’origine.
In Italia, il coniuge del genitore biologico ha chiesto di poter adottare il figlio del partner nelle forme dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, lettera d) della legge 184/1983.

L’adozione in casi particolari
Al riguardo, va precisato che l’adozione in casi particolari è disciplinata dall’art. 44 della legge n. 184/83 che, elenca quattro ipotesi tassative a salvaguardia, nelle lettere a) e b), del rapporto che si costituisce tra il minore ed un nucleo familiare con cui in precedenza ha già sviluppato legami affettivi, mentre nelle lettere c) e d), i minori che versano in specifiche situazioni di disagio.
La specificità dell’adozione in casi particolari è data dal fatto che, a differenza dell’adozione ordinaria o “piena”, i legami del minore con la famiglia di origine permangono e che in tale tipo di adozione gli adottandi non acquistano alcun diritto su eventuali beni del minore adottato. Il minore, invece, è equiparato ai figli legittimi e concorre come ogni altro figlio nella divisione ereditaria dei beni degli adottanti.
Inoltre, a differenza dell’adozione ordinaria, l’adozione in casi particolari può, nei casi previsti dalla legge, essere revocata.
Presupposto fondamentale è che i genitori dell’adottando prestino il proprio assenso, qualora siano in grado di poterlo fornire.

La decisione del T.M.
Sulla scia delle precedenti pronunce (sentenze n. 1055 del 30.7.2014 e 291 del 22.10.2015), il Tribunale ha ritenuto che l’adozione in casi particolari vada disposta, a tutela del prioritario interesse del minore: con l’adozione in casi particolari il legislatore ha voluto ampliare il novero dei soggetti legittimati a diventare genitori, semplificando la procedura di adozione allo scopo di consolidare i rapporti tra il minore e le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo un’adozione con effetti più limitati e presupposti meno rigorosi rispetto a quella legittimante.
Non è dunque necessario che il minore si trovi in stato di abbandono (come richiesto per l’adozione ordinaria), presupposto per l’adozione in casi particolari è – nella vicenda esaminata dal Tribunale – l’accertata impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo (lett. d) art. 44).
Nessun rilievo assume al riguardo la circostanza che il richiedente l’adozione non sia coniugato per il nostro ordinamento con il padre biologico del bambino di cui chiede l’adozione: la lettera d) dell’art. 44 non prevede il vincolo coniugale come presupposto, e nel nostro ordinamento non c’è un esplicito divieto alla persona single di adottare, indipendentemente dal suo orientamento sessuale.
Osserva il collegio come diversi giudici abbiano ritenuto di applicare l’adozione in casi particolari anche ai conviventi di fatto (Trib. minorenni Milano 626/2007; C. app. Firenze 1274/2012), ed operare una distinzione tra conviventi eterosessuali ed omosessuali sia contrario ai principi costituzionali, oltre che ai principi della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, art. 8 e 14, più volte ribaditi dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani.
Dunque, nel caso di impossibilità di affidamento preadottivo, non va indagata la sussistenza dello stato di abbandono del minore, ma la decisione del Tribunale dei minori dev’essere fondata sul “riscontro dell’idoneità dell’adottante, valutabile discrezionalmente dal giudice sulla base dell’esclusivo interesse del minore“: non si tratta di rispondere all’esigenza di riconoscimento di una bigenitorialità non ancora consentita dalla legge, ma il Giudice è chiamato valutare il legame esistente tra il minore e l’adottando considerato autonomamente, e non con riferimento alla relazione con il genitore biologico del minore, “escludendo alcuna sovrapposizione del rapporto che lega le due figure adulte con quello di tipo filiale del ricorrente con il minore, riconoscendo ad esso un contenuto di diritti/doveridi fatto già sussistenti ed attuati“.
E nel caso in esame, dopo aver svolto approfondite indagini mediante i Servizi sociali sul nucleo familiare, sulla relazione di coppia e sulla relazione coppia-bambino, il Tribunale ha ritenuto rispondente all’interesse del minore essere adottato dal ricorrente.
Fonte: Tribunale minorenni Roma, sentenza 23.12.2015

Quando il figlio va a vivere con l’altro genitore, l’importo dell’assegno va rivisto

Se il figlio cambia la propria residenza prevalente, lasciando l’abitazione di un genitore per andare a vivere con l’altro, il genitore non più convivente non è tenuto a versare all’altro genitore un assegno per il mantenimento del figlio di importo equivalente a quello che riceveva allo stesso scopo prima del cambiamento abitativo.
L’ammontare dell’assegno va ricalcolato, tenendo conto delle attuali diverse condizioni economiche dei genitori, alla luce dell’art. 337 ter, quarto comma, del Codice Civile, in base al quale i genitori provvedono al mantenimento dei figli in proporzione al proprio reddito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in un’ordinanza pubblicata lo scorso 27 aprile: la vicenda giunta al vaglio dei giudici di legittimità riguardava un provvedimento con cui la Corte d’Appello di Messina, nell’ambito di un procedimento per modifica delle condizioni di divorzio, dato atto che uno dei figli si era trasferito a vivere dalla madre al padre, aveva deciso che la madre corrispondesse al padre il medesimo importo dell’assegno mensile con cui il padre stesso era stato fino ad allora onerato (€ 400,00 mensili).
La decisione di secondo grado aveva lasciato insoddisfatti entrambi gli ex coniugi: il marito, che ambiva ad un assegno più alto, aveva presentato ricorso in Cassazione sostenendo che non erano stati adeguatamente valutati i redditi della moglie e che non erano state considerate le maggiori esigenze economiche del figlio conseguenti alla sua crescita.
Dal canto suo, la moglie lamentava l’eccessiva onerosità dell’importo posto a suo carico, calcolato, a suo dire, senza tener conto le sue attuali condizioni economiche, che avrebbero giustificato l’esclusione di ogni contributo per i figli.
In buona sostanza, entrambi gli ex coniugi evidenziavano, sebbene per ragioni opposte, un errore di diritto ed una carenza istruttoria relativamente alla valutazione delle loro condizioni economiche attuali. La Corte di Cassazione ha accolto le istanze delle parti, evidenziando che il cambiamento abitativo dei figli impone una rivisitazione dell’assetto economico.
Per quanto riguarda, invece, la questione delle maggiori esigenze economiche dei figli conseguenti alla crescita, nella pronuncia in esame la Suprema Corte pare prendere le distanze dal precedente orientamento interpretativo secondo cui l’aumento delle necessità, essendo connaturato alla crescita non richiede specifica dimostrazione: ha, infatti, precisato che “ai fini di un eventuale aumento dell’importo, si dovrà necessariamente effettuare una valutazione concreta delle esigenze dei figli stessi (ciò ovviamente sempre sulla base delle esigenze economiche dei genitori)”.

Fonte: Corte di Cassazione, Sez. I, ordinanza 8151/2016 del 27.4.2016

di

Assegno di mantenimento e pagamento del mutuo

La Cassazione penale è tornata di recente ad affrontare il tema della mancata corresponsione del contributo al mantenimento dei figli da parte del genitore obbligato.
Decidendo in un caso nel quale l’imputato era stato condannato, tra l’altro, ex art. 12 sexies L. 898/70 per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile a favore dei figli minori, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di impugnazione proposto dai difensori,i quali avevano evidenziato come il mancato versamento fosse conseguente ad un pregresso accordo tra i genitori e con il quale l’imputato si impegnava a pagare per intero i ratei del mutuo contratto per l’acquisto di un immobile conferito in un fondo patrimoniale, provvedendo così anche alla quota di competenza dell’ex coniuge.
La Cassazione ha chiarito che l‘obbligo di versare l’assegno di mantenimento è inderogabile ed indisponibile e, come tale, non può essere sostituito con prestazioni di altra natura. Oltretutto, nella vicenda specifica, il pagamento delle rate del mutuo era avvenuto in un periodo precedente a quello in cui era stato omesso il versamento dell’assegno.

Fonte: Cass. pen. sent. n. 10944 del 15.3.2016

Il beneficiario di amministrazione di sostegno può fare testamento?

L’idea che la persona sottoposta ad amministrazione di sostegno non possa validamente disporre per testamento è piuttosto diffusa. Ma è errata. Vediamo perchè.

In realtà, l’amministrazione di sostegno non priva automaticamente la persona della capacità di testare: colui che beneficia dell’amministrazione di sostegno rimane sempre capace di agire per qualsiasi atto che non sia espressamente vietato dalla legge o dal decreto di nomina dell’amministratore (art. 409 Cod. civ.).

La legge disciplina l’incapacità di testare nell’art. 591 del Codice civile, che stabilisce che sono incapaci di testare:
a) coloro che non hanno compiuto la maggiore età;
b) gli interdetti per infermità di mente;
c) quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.

Nelle ipotesi contemplate dal legislatore, dunque, non rientra l’amministrazione di sostegno.
Ne consegue che si dovrà fare riferimento al decreto di nomina dell’amministratore di sostegno: se in esso non è prevista espressamente una limitazione della capacità di disporre per testamento, il beneficiario della misura protettiva rimane capace.

Ma quando il giudice tutelare può disporre l’incapacità di testare del beneficiario dell’amministrazione di sostegno?

La valutazione del Giudice dovrà essere particolarmente attenta e scrupolosa, in quanto si tratta di una limitazione di non poco conto e che consiste in un divieto a priori, che viene emesso in epoca precedente alla redazione del testamento, e che prescinde dal suo contenuto.

In assenza di specifiche disposizioni di legge, il Giudice Tutelare dovrà fare riferimento alle norme che regolano situazioni analoghe. Ed in particolare, alle disposizioni che disciplinano l’attività notarile di raccolta degli atti e che impongono al notaio di svolgere un’indagine sulla volontà delle parti (artt. 47 e 67 della legge notarile), nonchè alle norme che disciplinano l’invalidità del testamento e delle singole disposizioni testamentarie (art. 591 cod. civ. e artt. 624 e segg. cod. civ.) e che guidano il giudizio del Tribunale nei procedimenti di impugnazione del testamento.
Le norme citate hanno un elemento in comune: impongono di verificare che il contenuto del testamento corrisponda effettivamente alla volontà che la parte ha manifestato e che, a monte, questa volontà si sia formata in modo libero e consapevole.
In sostanza, l’accertamento del Giudice Tutelare dev’essere teso a verificare che la persona beneficiaria di a.d.s.
– non versi in condizioni di infermità o inferiorità tali da esporla a possibili raggiri e manipolazioni,
comprenda in modo corretto la natura dell’atto,
– abbia maturato la decisione di testare autonomamente e spontaneamente, all’esito di un percorso psicologico corretto e non frutto di condizionamenti esterni.

Sulla scorta di queste valutazioni, il Giudice Tutelare di Vercelli, con provvedimento del 4.9.2015, ha rigettato il ricorso con cui l’amministratore di sostegno di un’anziana signora, stante volontà manifestata dalla medesima di modificare il proprio testamento, aveva chiesto al giudice di valutare l’opportunità di estendere alla beneficiaria le limitazioni legali circa la capacità di testare previste per gli interdetti.
Il Giudice, all’esito di uno approfondito accertamento istruttorio, ha ritenuto che la beneficiaria, pur presentando patologie fisiche che la rendevano in parte impossibilitata a provvedere ai propri interessi, fosse nel pieno possesso ed esercizio della propria capacità di negoziare per testamento in qualsiasi forma.

Fonte: Giudice Tutelare di Vercelli, decreto 4.9.2015

Se i genitori non sono d’accordo sulla scelta della scuola

In un procedimento di separazione personale, i coniugi non riescono a decidere assieme se iscrivere i figli alla scuola pubblica o ad una scuola privata: un genitore sostiene che i bambini dovrebbero continuare a frequentare l’istituto paritario cui erano già iscritti prima della separazione, l’altro si oppone, rappresentando di non essere più in condizione di far fronte alle elevate spese della scuola privata. La decisione viene rimessa al  giudice della separazione, che opta per la scuola pubblica.

Il ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, nella recente sentenza n. 3521 del 18.3.2016, prende le mosse dalla constatazione che la separazione determina un impoverimento dei membri della famiglia, al momento che si passa da un’unica economia a due economie domestiche distinte, con conseguente incremento delle spese, molte delle quali (casa, acquisto di alimenti, ecc.) necessariamente si sdoppiano a  causa della separazione.

Di tale dato il giudice deve tenere conto, trattandosi di un elemento di fatto che incide, in concreto, sul tenore di vita dei componenti della famiglia, tenore di vita che, per ragioni oggettive, non può essere dopo la separazione equivalente a quello che aveva il nucleo prima della frattura. E, dunque, quand’anche in precedenza i figli avessero frequentato scuole private di pregio e di ottimo livello, questa possibilità può anche venire meno quando i genitori si separano e non sono più dello stesso parere sulla scelta iniziale.

In questo caso – sancisce il Tribunale di Milano – la preferenza va data alla scuola pubblica, quando non vi siano controindicazioni per i minori: e ciò poichè la scuola pubblica è ritenuta idonea dall’ordinamento allo sviluppo culturale di qualsiasi minore residente sul territorio ed inoltre rappresenta una scelta “neutra“, che non rischia di orientare il minore verso determinate scelte educative o di orientamento culturale cui potrebbe essere indirizzato dalla scuola privata.

L’opzione in favore dell’istruzione pubblica è, dunque, da privilegiare, a meno che non vi siano delle situazioni particolari (specialmente se riconducibili a difficoltà di apprendimento, fragilità di inserimento con i coetanei, esigenze di coltivare gli studi e la formazione in sintonia con la dotazione culturale o l’estrazione nazionale dei genitori, ecc.), che rendano oggettiva l’esigenza del minore di frequentare la scuola privata.

Fonte: Tribunale di Milano, sentenza n. 3521 del 18.3.2016 (est. Buffone)