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Ascolto del minore: un diritto fondamentale

Nel contesto dell’ascolto del minore nell’ambito dei procedimenti giudiziari, l’art. 473-bis.4 c.p.c. ha introdotto importanti cambiamenti, superando il vecchio art. 336-bis c.p.c. Oltre a considerare le difficoltà fisiche o psichiche del minore quali elementi ostativi all’ascolto, ora si tiene conto anche della sua volontà di non essere ascoltato.

La nuova disposizione conferma che l’ascolto del minore non è soltanto un elemento procedurale, ma un diritto fondamentale della persona del minore. È uno strumento cruciale per proteggere l’interesse del minore e fare in modo che le decisioni più importanti per la sua vita siano prese considerando la sua volontà e i suoi sentimenti.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, nella recente sentenza dell’11 dicembre 2023 n. 34560.

Il caso

La sentenza riguarda un caso di risarcimento del danno da fatto illecito in ambito familiare: la madre di un minore era stata condannata in primo grado e in appello a risarcire i danni provocati all’ex marito cui aveva impedito di vedere il figlio, danni quantificati nell’importo di circa 35.000,00 €.

La signora si rivolge quindi alla Corte di Cassazione lamentando un vizio di legittimità del procedimento, nel quale non era stato sentito il figlio minore, a suo avviso parte interessata alle vicende oggetto di causa.

La Corte d’Appello, in particolare, aveva respinto la richiesta sottolineando che l’audizione del figlio era superflua, poiché si trattava di un giudizio di risarcimento danni tra i genitori, e quindi di una lite che riguardava soltanto gli adulti, non direttamente il minore.

La decisione

La Cassazione ha respinto il ricorso della madre, sostenendo che il procedimento in questione non rientrava tra quelli in cui il minore dev’essere ascoltato, non trattandosi di un procedimento nel quale il figlio è a tutti gli effetti parte del processo e nel quale si decidono questioni che lo riguardano direttamente. Questa decisione riflette l’applicazione corretta delle normative che regolano l’ascolto del minore.

La pronuncia è molto interessante, poiché ricostruisce in modo dettagliato l’evoluzione dell’istituto dell’ascolto del minore e chiarisce che l’ascolto del minore è un elemento chiave per garantire un processo giusto e equo, tenendo conto dei suoi interessi specifici.

La natura giuridica dell’ascolto del minore

Il diritto all’ascolto del minore è stato rafforzato a livello internazionale e nazionale, riconoscendo la sua natura di diritto fondamentale.

In ambito nazionale già con la legge n. 219 del 2012 si è affermata la necessità di ascoltare il minore ultradodicenne nei procedimenti che lo riguardano.

Più di recente, la riforma entrata in vigore il 28 febbraio 2023, ha introdotto l’art. 473-bis.4 c.p.c. nel quale viene precisato che nella decisione sull’ascolto del minore si deve tenere conto anche della volontà del minore di non essere ascoltato.

Ciò conferma che l’ascolto del minore non è solo un incombente processuale, ma un diritto sostanziale: si tratta di una modalità tra le più rilevanti, di riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, e gli consente dunque di partecipare alle decisioni relative alla sua sfera individuale, configurandosi come uno strumento di tutela e conseguimento del suo interesse nell’ambito del procedimento.

L’ascolto del minore è dunque un diritto fondamentale della persona del minore, uno strumento essenziale per garantire che le decisioni giuridiche tengano conto della volontà e dei sentimenti del minore.

 

Fonte: Corte di Cassazione sentenza n. 34560 dell’11 dicembre 2023.

Come si calcola l’assegno per i figli?

Per calcolare l’ammontare del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, si deve fare riferimento al principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.

Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza del 22 novembre 2023 n. 32466.

Il caso

Il ricorso riguardava una controversia sul contributo economico dovuto dal padre per il mantenimento di un figlio minore. La Corte d’Appello aveva precedentemente stabilito che nonostante una riduzione dei redditi, il padre aveva ancora risorse sufficienti grazie a contratti con società calcistiche.
Il genitore ha presentato ricorso per cassazione, affermando che la Corte d’Appello aveva violato il principio di proporzionalità e non aveva considerato adeguatamente la sua situazione economica.

La decisione

La Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso e ha sottolineato che, per quantificare il contributo al mantenimento dei figli, è necessaria la comparazione dei redditi di entrambi i genitori, considerando anche le esigenze attuali del figlio e il tenore di vita.
La Cassazione ha evidenziato che la Corte d’Appello non aveva indagato sulle risorse patrimoniali e reddituali della madre convivente con il figlio, nonostante le specifiche richieste del padre. Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la decisione impugnata e ha rinviato il caso alla Corte d’Appello di Napoli in una diversa composizione per una nuova valutazione, inclusa la liquidazione delle spese del giudizio.

Fonte: Cassazione ordinanza n. 32466 del 22 novembre 2023.

Per il rilascio del passaporto non serve (più) il consenso dell’altro genitore

Il decreto legge n. 69/2023, entrato in vigore il 14 giugno 2023, ha cambiato le regole per ottenere il passaporto in Italia. In precedenza, in presenza di figli minorenni, per il rilascio e per il rinnovo del passaporto di uno dei genitori era sempre necessario il consenso dell’altro.

Ora non è più così: un genitore che vuole il rilascio o il rinnovo del suo passaporto non ha più bisogno del consenso dell’altro. Resta obbligatorio il consenso di entrambi i genitori o di chi ne ha la responsabilità soltanto per il rilascio del passaporto dei minorenni.

Cosa può fare l’altro genitore se non è d’accordo per il rilascio del passaporto?

Se uno dei genitori intende opporsi al rilascio o al rinnovo del passaporto dell’altro, deve presentare istanza al giudice, indicando le motivazioni a fondamento della domanda.

Il tribunale, nel rispetto del principio di proporzionalità e tenendo conto della normativa interna e internazionale in materia di responsabilità genitoriale, mantenimento e sottrazione internazionale di minori,  emette un divieto (inibitoria) quando vi è rischio reale che il genitore, recandosi all’estero, possa venire meno ai suoi doveri verso i figli. Se la richiesta viene accolta, il giudice stabilisce per quanto tempo rimarrà in vigore l’inibitoria, che comunque non può superare i due anni.

La richiesta dev’ essere presentata al tribunale nel luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Se è già in corso una procedura legale tra le stesse persone, la richiesta va presentata al giudice di quella procedura. Se il minore vive all’estero, la richiesta va presentata al tribunale in Italia dove viveva prima o al tribunale nella zona in cui il minore è registrato all’AIRE.

La domanda di inibitoria può essere presentata anche dal Pubblico Ministero.

 

Fonte: Art. 20 del decreto legge n. 69 del 13 giugno 2023.

Separazione e divorzio insieme: oggi è possibile

Tra le più importanti novità introdotte dalla Riforma Cartabia vi è la possibilità di richiedere il divorzio insieme alla separazione.

In passato, il procedimento di divorzio poteva essere avviato soltanto a distanza di un certo tempo dalla separazione, e più esattamente dopo sei mesi, se la separazione era consensuale, o dopo un anno, in caso di separazione giudiziale. Ora invece separazione e divorzio possono formare oggetto del medesimo procedimento ed essere trattate dallo stesso giudice.
Lo prevede espressamente il nuovo art. 473 bis.49 del codice di procedura civile.

La norma di riferimento

Secondo tale norma al momento di avvio del procedimento di separazione si può chiedere anche la pronuncia del divorzio (in gergo tecnico, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, a seconda del rito di celebrazione delle nozze).
La regola è prevista per le separazioni giudiziali, vale a dire quelle che vedono le parti in contrasto tra di loro sulle condizioni dell’assetto separativo (a titolo esemplificativo, sull’assegnazione della casa, sulla gestione dei figli o sul mantenimento).

Cosa accade in caso di separazione consensuale?

L’ipotesi di separazione consensuale non è contemplata dalla norma e pertanto la possibilità di separarsi e divorziare consensualmente nello stesso procedimento è una questione aperta.

Vari tribunali italiani si sono pronunciati sul tema, adottando però soluzioni diverse. Alcuni tribunali (Genova e Milano, ad esempio) applicano in senso estensivo l’art. 473 bis.19 del codice di procedura civile e consentono il cumulo di separazione e divorzio anche nei ricorsi consensuali.
Altri (tra cui Ferrara e Bari) non lo consentono: tale posizione restrittiva, frutto di una interpretazione letterale della nuova norma, si rifà all’orientamento interpretativo della Corte di Cassazione che da sempre ritiene nulli e invalidi i patti prematrimoniali e gli accordi di divorzio preventivi.
Di recente, il Tribunale di Treviso ha rimesso a questione alla Corte di Cassazione, la quale potrà chiarire la questione.

Quali sono i vantaggi del cumulo di separazione e divorzio?

Il principale vantaggio è evitare la duplicazione dei procedimenti, considerato che spesso le questioni oggetto della causa di separazione coincidono con quelle oggetto del divorzio. Accorpando i due procedimenti si risparmia tempo e si può ottenere più velocemente una regolamentazione definitiva dei rapporti.

Attenzione però: la riforma Cartabia non ha abrogato la norma che stabilisce che in caso di separazione giudiziale debba decorrere un anno dalla prima udienza della separazione per poter chiedere il divorzio. Pertanto, anche in caso di cumulo della domanda di separazione e divorzio, occorrerà attendere un anno dalla prima udienza della causa affinchè il tribunale possa emettere la sentenza di divorzio.

E’ obbligatorio chiedere insieme separazione e divorzio?

No, si tratta di una facoltà. La scelta va fatta assieme al proprio avvocato, tenendo conto delle caratteristiche della specifica vicenda familiare, degli obbiettivi che si vogliono ottenere e della miglior tutela dei propri diritti e interessi.
Non sempre, infatti, può essere opportuno presentare la domanda di divorzio insieme alla separazione.

Sì all’affidamento super-esclusivo al padre se la madre non frequenta i figli e rifiuta il dialogo con il padre

Con un recente decreto, il Tribunale di Ferrara ha accolto la domanda di un padre che chiedeva l’affidamento super-esclusivo dei figli poiché la madre dei minori aveva interrotto volontariamente ogni contatto con i figli per molti anni.

In un precedente procedimento tra le parti, i figli erano stati affidati in via condivisa e collocati presso il padre, con incarico al Servizio sociale di regolare i rapporti tra i minori e la madre. In seguito, però la madre non aveva mai ripreso i contatti con il Servizio e con i figli.

Dopo alcuni anni, quindi, il padre ha chiesto la modifica del vecchio decreto, fondando la domanda sull’assenza della madre dalla vita dei minori.

La pluriennale mancanza di rapporti con i figli è stata confermata in giudizio dalla madre, che l’attribuiva ad un malessere dovuto alle pregresse travagliate vicende familiari.

Nel corso del procedimento è stata disposta indagine mediante il Servizio sociale che ha dato conto delle buone capacità educative del padre, ha riferito del rifiuto della madre di incontrarlo e della richiesta della medesima che i rapporti tra i genitori venissero mediati dal servizio.

Da tale rifiuto il tribunale ha concluso per l’oggettiva impossibilità di una gestione condivisa dei figli e ha ritenuto rispondente all’interesse dei figli la previsione dell’affidamento esclusivo al padre, con facoltà per quest’ultimo di adottare ogni decisione relativa ai figli.

Si tratta, dunque, di un affidamento super-esclusivo, nel quale tutte le decisioni, anche quelle più importanti per la crescita dei figli, le decisioni di maggiore interesse, sono rimesse al genitore affidatario. L’affidatario ha la facoltà di condividerle con l’altro genitore, ma non è tenuto a farlo.

 

Fonte: Tribunale di Ferrara, decreto 1.7.2022

Genitori separati: a chi spetta l’Assegno Unico e Universale?

Secondo il tribunale di Bari, spetta al 100% al genitore convivente con i figli.

Più in particolare, con una sentenza pubblicata il 3 febbraio 2022 il tribunale di Bari ha stabilito che, in caso di genitori separati, le prestazioni erogate dall’INPS a tutela della famiglia devono andare in favore del genitore che ha la collocazione  dei figli.

Nella motivazione della sentenza, il tribunale richiama una sentenza della Corte di cassazione secondo cui il legislatore nella normativa in materia di assegni familiari ha inteso favorire il coniuge affidatario dei figli e sancito il diritto di quest’ultimo a percepire gli assegni familiari indipendentemente da chi sia titolare del rapporto di lavoro posto alla base dell’erogazione. Applicando questo principio – afferma il tribunale di Bari – anche l’assegno unico, che ha preso il posto degli assegni per il nucleo familiare, spetta per intero al genitore convivente coi figli.

Attenzione, però: si tratta soltanto di una interpretazione.

Le indicazioni dell’INPS

Qualche giorno fa, l’INPS si è espressa in senso diametralmente opposto: infatti, con il messaggio n. 1714 del 20 aprile 2022 l’INPS ha chiarito i principi che presiedono l’attribuzione dell’Assegno Unico e Universale in favore dei minorenni ai genitori separati.

Le regole variano a seconda del tipo di affidamento e sono le seguenti:

In caso di affidamento condiviso

Il principio generale è che l’Assegno Unico e Universale viene erogato al 50% ciascuno ai genitori che hanno l’affidamento condiviso dei figli.

Tuttavia, resta salva la facoltà dei genitori di concordare che il contributo venga erogato per intero solo a uno dei due.

Dunque, i genitori possono accordarsi nel senso che l’assegno spetti per intero al genitore che ha la collocazione prevalente dei figli. Ma attenzione: devono essere entrambi d’accordo! Se uno dei due dice di no, l’assegno viene attribuito in automatico al 50%.

In caso di affidamento esclusivo

L’assegno viene sempre erogato per intero al genitore che ha l’affidamento esclusivo.

Se lo ha stabilito il giudice

Inoltre, se il giudice, nel provvedimento che disciplina la separazione di fatto, legale o il divorzio dei genitori, ha disposto che dei contributi pubblici usufruisca uno solo dei genitori, l’assegno viene sempre erogato a un solo genitore, a prescindere dal tipo di affidamento, .

Cosa fare se la domanda presentata da un genitore non rispetta le regole?

Se un genitore ha presentato la domanda chiedendo l’attribuzione al 100% in violazione delle regole di cui sopra, l’altro genitore  può presentare all’INPS istanza di revisione della domanda, allegando la documentazione a sostegno della sua richiesta (ad esempio, il provvedimento del tribunale che dispone l’affidamento condiviso).

 

La Corte Costituzionale rivoluziona le regole sul cognome dei figli

Il vento di primavera arriva dalla Corte Costituzionale: con una storica sentenza, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che regolano l’attribuzione del cognome ai figli nel nostro ordinamento.

La norme che sono state esaminate della Corte Costituzionale sono due:
– la norma che non consente ai genitori di attribuire al figlio, di comune intesa, soltanto il cognome della madre,
– la norma che in mancanza di accordo tra i genitori prevede che debba essere dato al figlio soltanto il cognome del padre e non quello di entrambi i genitori.

Entrambe le norme sono state dichiarate incostituzionali, poiché contrarie agli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione e agli articoli 8 e 4 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

A seguito dell’intervento della Consulta, il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da essi concordato, a meno che i genitori decidano di comune accordo di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In caso di disaccordo, verrà applicato il cognome di entrambi i genitori.

Questi i principi sanciti dalla Corte Costituzionale, secondo il comunicato stampa diffuso in attesa della pubblicazione della sentenza.

Spetta a questo punto al legislatore intervenire per regolare gli aspetti pratici conseguenti alla decisione.

Un altro passo avanti verso l’uguaglianza e la piena tutela dell’interesse del figlio.

Adozione speciale: il legame coi parenti adottivi è un diritto del minore

E’ stata pubblicata lo scorso 28 marzo la sentenza della Corte Costituzionale n. 79/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità delle norme relative all’adozione in casi particolari (detta anche “adozione speciale”) che non consentono la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante.

Cos’è l’adozione in casi particolari?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale), è regolata dagli art. 44 e seguenti dalla legge 184 del 1983 sull’adozione e viene applicata in quattro ipotesi specifiche:

1 – la prima si verifica quando il minore è orfano di padre di madre e ci sono dei parenti entro il sesto grado o legati a lui da un rapporto affettivo stabile disposti ad occuparsene;

2 – la seconda ipotesi si verifica in favore del figlio del coniuge;

3 – la terza riguarda il minore orfano in condizioni di disabilità;

4– la quarta è infine quella relativa ad una constatata impossibilità di affidamento preadottivo (ciò accade, ad esempio, quando il minore non può essere dichiarato in stato di abbandono).

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) è lo strumento che viene utilizzato per consentire l’adozione del figlio del partner anche in coppie unite civilmente o tra conviventi non coniugati.

Che differenza c’è tra adozione speciale e adozione piena?

L’adozione in casi particolari (o adozione speciale) si differenzia dall’adozione piena (o adozione legittimante) per il fatto che nell’adozione in casi particolari non si interrompe il legame del minore adottato con la sua famiglia biologica. I genitori adottivi diventano responsabili della crescita dell’assistenza del minore, ma rimane comunque un rapporto tra il bambino e il suo il nucleo di provenienza.
Al contrario, nell’adozione piena (o adozione legittimante) il legame tra il minore e la famiglia d’origine si interrompe del tutto e il bambino diventa parte per la legge soltanto della famiglia dei genitori adottivi.
Questo comporta delle conseguenze, ad esempio, anche per quanto attiene il cognome: nell’adozione piena il cognome della famiglia adottiva sostituisce il cognome originario del bambino, nell’adozione speciale il cognome del genitore adottivo si aggiunge al cognome originario.

Cosa accade rispetto ai parenti della famiglia adottiva?

Fino all’intervento della Corte Costituzionale, un altro elemento che distingueva l’adozione in casi particolari (o adozione speciale) dall’adozione piena era costituito dal fatto che si creava un rapporto soltanto tra il bambino e il genitore adottivo, ma non si creava un rapporto di parentela tra il bambino adottato e i familiari del genitore adottivo.
Per la legge, il minore adottato con la modalità dell’adozione speciale non aveva, dunque, nella famiglia adottiva fratelli, nonni, ziii e cugini.

La recente sentenza della Consulta ha cambiato le regole, dichiarando non conforme ai principi costituzionali e discriminatoria la regola contenuta nell’art. 55 della legge 184 del 1983 che non consentiva la creazione di un rapporto di parentela tra il minore adottato e la famiglia adottiva.

Il legame coi parenti è un diritto del minore

L’apertura della Corte Costituzionale è il risultato di un progressivo riconoscimento ampliativo dei minori. La normativa e la giurisprudenza degli ultimi anni hanno mostrato grandissima attenzione nei confronti della figura del minorenne e hanno cercato sempre di più di porre tutti i bambini sullo stesso piano, riconoscendo a tutti i figli lo stesso stato giuridico.

Con questo ulteriore tassello la Corte Costituzionale ha affermato che entrare nella rete parentale dei genitori adottivi costituisce un vero e proprio diritto del minore adottato, indipendentemente dal tipo di adozione.

 

Fonte: Corte Costituzionale, sentenza n. 79 del 2022.

Se il marito resta senza lavoro deve continuare a pagare l’assegno di mantenimento alla moglie?

Sì, ma solo se permane un divario tra le condizioni economiche dei coniugi.  Se il reddito del marito rimane superiore a quello della moglie, l’assegno va ridotto, ma non eliminato.

 

Le regole della separazione e del divorzio possono cambiare

Le disposizioni economiche della separazione e del divorzio non sono immutabili nel tempo, ma possono cambiare se cambiano i redditi e il patrimonio dei coniugi o degli ex coniugi.

Pertanto, quando il coniuge tenuto al versamento dell’assegno peggiora la propria condizione economica può rivolgersi al giudice per ottenere la revisione di quanto stabilito nella separazione, domandando la riduzione o l’eliminazione dell’assegno.

Il giudice dovrà rivalutare la condizione economica di entrambi i coniugi e verificare quale sia l’assetto attuale e quanto il cambiamento abbia inciso sulle condizioni economiche delle parti.

Il cambiamento, per fondare la modifica delle precedenti prescrizioni, deve essere rilevante e stabile. Non basta un cambiamento temporaneo o con effetti limitati nel tempo

 

Se il marito perde il lavoro …

In un recente caso esaminato dalla Corte d’appello di Milano il marito ha chiesto la modifica delle condizioni di separazione dichiarando che la società di cui era amministratore aveva cessato l’attività e di essere pertanto rimasto privo delle relative entrate. Al momento della separazione egli percepiva compensi come amministratore della società e una pensione. Con l’estinzione della società, gli era rimasta solo la pensione.

Alla luce del peggioramento delle sue condizioni economiche, il marito ha chiesto che venisse tolto l’assegno di 2.000,00 € per il mantenimento della moglie previsto al momento della separazione.

I giudici hanno ribadito che la modifica delle condizioni reddituali dei coniugi incide sulle regole relative al mantenimento e consente di rimodulare l’assegno, ma non lo fa venire meno automaticamente.

Nel caso specifico, hanno ritenuto che fosse comunque necessario riconoscere un contributo alla moglie, perché, anche se il marito aveva peggiorato la sua condizione finanziaria, rimaneva comunque un sensibile divario nell’assetto economico dei coniugi. Se il marito si era impoverito, la moglie se la passava peggio, in quanto del tutto priva di redditi.

L’assegno per la moglie è stato così ridotto a 500 € mensili, ma non è stato eliminato.

 

Fonte: Corte d’appello di Milano decreto 27 ottobre 2021

Gli accordi tra genitori separati sulle visite ai figli sono vincolanti per il giudice?

No, non lo sono. Il giudice può decidere anche diversamente da quanto concordato dai genitori, se ritiene che regole diverse siano meglio rispondenti all’interesse del figlio.
In tema di separazione personale dei coniugi e di divorzio, e anche con riferimento ai figli di genitori non sposati, il criterio fondamentale cui devono ispirarsi le decisioni dell’autorità giudiziaria riguardo ai figli è rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale dei figli. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 1993 pubblicata il 24 gennaio 2022.
La norma di riferimento è l’articolo 337 ter del codice civile, che pone al centro dell’attenzione del giudice il figlio e il suo migliore interesse. Il tribunale, dunque, non è vincolato agli accordi tra i genitori sul calendario delle visite e può discostarsene per realizzare l’interesse del figlio. La decisione, però, va adeguatamente motivata: il giudice deve chiarire quali sono le specifiche ragioni per cui la soluzione proposta dai genitori non va bene per i figli.

Il caso: tribunale, prima, e corte d’appello, poi, avevano ridotto i giorni di competenza del padre

Il caso giunto all’attenzione della Cassazione riguardava una coppia di genitori non coniugati che, nel procedimento relativo alla regolamentazione dei rapporti con i figli davanti al tribunale di Bologna, aveva concordato l’affidamento condiviso dei figli, la loro collocazione abitativa con la madre e il tempo di permanenza dei figli minori con il padre. Il calendario condiviso prevedeva che il padre trascorresse con i figli sei giorni ogni due settimane.
Nonostante l’accordo, il tribunale aveva ridotto a cinque giorni ogni due settimane il periodo che i figli trascorrevano con il padre e la Corte d’appello aveva poi confermato tale decisione, senza tuttavia chiarire le motivazioni alla base di tale decisione.
Il padre, dunque, si era trovato costretto a rivolgersi alla Corte di Cassazione, contestando la nullità della decisione d’appello in quanto i giudici avevano deciso andando oltre le richieste delle parti.

La decisione però non era motivata e pertanto…

La Cassazione, dopo aver evidenziato che in tema di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli il giudice deve tener conto soltanto dell’interesse del minore, a prescindere dagli accordi tra i genitori, ha accolto la richiesta del padre, sottolineando che la decisione difforme dagli accordi tra i genitori dev’essere adeguatamente motivata. Nel caso esaminato né il tribunale né la corte d’appello avevano giustificato la previsione di un calendario difforme da quello chiesto dai genitori. Pertanto, la causa è stata rimessa alla causa alla Corte d’appello di Bologna per essere riesaminata.

Fonte: Cassazione, Sez. VI, ord. n. 1993 del 1-24 gennaio 2022