Come si calcola l’assegno di mantenimento dei figli?

Una delle questioni da affrontare nella separazione, anche dei conviventi di fatto, è il contributo al mantenimento dei figli.
L’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è un obbligo di legge inderogabile ed irrinunciabile. Esso è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che sorgono in capo ai genitori per il solo fatto della procreazione.

Contribuire al mantenimento dei figli significa provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive, ecc. ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere conservando, anche nella separazione dei genitori, lo stesso tenore di vita tenuto quando la famiglia era unita.

L’obbligo di mantenimento perdura dalla nascita del figlio fino alla sua piena indipendenza economica, cioè fino a quando il figlio non dispone di redditi propri ed è autonomo economicamente. L’obbligo dunque non viene meno automaticamente quando il figlio diventa maggiorenne, ma perdura anche oltre la maggiore età, fino a che il figlio non è in grado di mantenersi da solo.

Ma come si misura l’obbligo di mantenimento?

Il principio di proporzionalità

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione tra i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli è il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle sue sostanze, comprensive dei redditi (stipendio), del patrimonio (beni posseduti) ed anche della capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Tale principio, affermato dall’art. 316 bis c.c., è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione dei genitori, coniugati e non.

Gli altri criteri per la quantificazione del mantenimento

L’art. 337 ter c.c.  stabilisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” .
La norma elenca i parametri di riferimento che il giudice e le parti devono usare nella quantificazione dell’assegno mensile per il mantenimento dei figli, parametri che sono volti – precisa la norma – a realizzare il principio di proporzionalità, e più esattamente:

1) le esigenze attuali del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio quando la famiglia era unita;
3) i tempi che il figlio trascorre con ciascun genitore;
4) le risorse economiche dei genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura che ciascun genitore svolge.

L’assegnazione della casa familiare

Ulteriore elemento di valutazione economica, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo.

Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro di conservare l’ambiente domestico e di vita, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

Il genitore cui la casa è assegnata ha il diritto di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’abitazione e di tutti i mobili e gli arredi presenti in casa, anche se l’immobile è cointestato all’altro o di proprietà esclusiva dell’altro.

L’assegnazione, ovviamente, incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario può realizzarsi un risparmio di spesa (dato che rimane nella casa a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per prendere in affitto o acquistare di un altro immobile.

Dell’assegnazione della casa coniugale, dunque, si deve tener conto anche nella quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.

Mantenimento diretto o assegno?

Generalmente quanto i genitori si separano viene stabilito un assegno mensile che il genitore che non convive con i figli deve versare all’altro genitore per contribuire al mantenimento dei figli.
La previsione dell’assegno, però, non è obbligatoria: in presenza di determinate condizioni, è possibile non prevedere il versamento dell’assegno, stabilendo che ciascuno dei genitori provveda in via diretta al mantenimento del figlio, facendosi carico delle spese che servono al figlio per il tempo in cui lo ha con sè. Si tratta del cosiddetto “mantenimento diretto“.

Questa soluzione richiede l’accordo delle parti e viene utilizzata quando vi siano determinati presupposti: ad esempio, quando i redditi dei genitori sono equivalenti ed il figlio trascorre tempi paritari con la madre ed il padre.

Quanto viene fissato, l’assegno mensile è soggetto a rivalutazione annuale, vale a dire deve essere aggiornato di anno in anno secondo gli indici di adeguamento ISTAT.

Le spese straordinarie

L’assegno periodico copre il mantenimento ordinario del figlio, vale a dire le spese che necessarie per il sostentamento e le altre spese di natura ordinaria, quali alimentazione, abbigliamento, calzature, spese di vitto ed alloggio, ecc.
A queste si aggiungono le spese straordinarie, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura extra ordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio. Queste spese, essendo imprevedibili ed imponderabili, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.
Le spese straordinarie non sono specificate dalla legge. La giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri di riferimento, che sono stati utilizzati per l’elaborazione di Linee guida – Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani, ed il cui scopo è fornire ai magistrati ed agli avvocati dei criteri uniformi per individuare le spese straordinarie, in modo da ridurre i possibili contenziosi sulla rimborsabilità o meno di alcune spese.

In generale, sono considerate spese straordinarie, tra l’altro, le spese mediche e specialistiche, comprese quelle odontoiatriche e oculistiche (ad esempio: ticket sanitari, prescrizioni terapeutiche, apparecchi correttivi, ecc.), le  spese per la scuola, l’istruzione e la formazione (ad esempio: tasse di iscrizione, dotazione libraria, materiale didattico, gite, attività integrative, ecc.), le spese per lo sport e per le attività ricreative.

Di norma, le spese straordinarie sono poste a carico di ciascun genitore in misura del 50%, ma è possibile anche prevedere che siano a carico di uno dei due in misura maggiore, così come è possibile suddividerle tra i genitori per tipologia di spesa. Ad esempio, può essere stabilito che la madre di faccia carico delle spese scolastiche e sportive e che il padre si faccia carico delle spese mediche, ecc.

L’interesse del figlio

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori ed il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno.

La quantificazione tiene conto dell’interesse primario del figlio e del suo diritto di crescere fruendo di risorse economiche adeguate alle proprie esigenze ed agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Le unioni civili in 10 punti

Dopo la faticosa conclusione dell’iter parlamentare,  la legge sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà) é stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 118 del 21 maggio scorso come Legge n. 76 del 20.5.2016.

Si tratta di una epocale riforma del diritto di famiglia, oggetto ampio ed acceso dibattito anche nella società civile.
Con la nuova legge 76/2016 viene introdotta nel nostro ordinamento, oltre alla regolamentazione delle convivenze di fatto, la disciplina normativa delle unioni tra persone dello stesso sesso, del tutto assente in precedenza. Ne esaminiamo in sintesi, i principali elementi.

1. Cos’è l’unione civile?

Le unioni civili sono un istituto riservato alle coppie same sex e si avvicinano, per molti profili, al matrimonio.
L’unione civile viene definita dalla legge “una formazione sociale specifica” tutelata ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, ma non vi è dubbio alcuno che si tratti di un istituto di diritto di famiglia.

2. Come si costituisce

L’unione civile si costituisce con le stesse modalità del matrimonio civile: mediante una dichiarazione resa dalle parti all’Ufficiale di Stato civile alla presenza di due testimoni.
A differenza del matrimonio, la celebrazione dell’unione civile non dev’essere preceduta dalle pubblicazioni.

3. La scelta del cognome

Diversa dal matrimonio è la disciplina del cognome: mentre nel matrimonio la donna assume il cognome del marito, nell’unione civile le parti hanno la possibilità di scegliere di utilizzare un cognome comune, scegliendolo tra i loro, anteponendolo o posponendolo al proprio. L’uso del cognome comune cessa in caso di scioglimento del vincolo.

4. I diritti e doveri reciproci

Con l’unione civile, i partner acquisiscono reciprocamente una serie di diritti e doveri, analoghi a quelli del matrimonio, ed in particolare:
il diritto – dovere all’assistenza morale e materiale
– il dovere di coabitazione
– l’obbligo di contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanza e alle proprie capacità di lavoro, professionale e domestico.

Come nel matrimonio, le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune.

Nei primi commenti alla normativa, la dottrina ha sottolineato la mancata previsione dell’obbligo di fedeltà per l’unione civile: secondo alcuni interpreti, l’obbligo di fedeltà è comunque presente, quale elemento implicito del dovere di assistenza morale e materiale; altri, invece, hanno evidenziato come in realtà l’evoluzione dei costumi e della giurisprudenza abbia nel tempo notevolmente ridimensionato l’importanza dell’obbligo di fedeltà nel matrimonio, svuotandolo di contenuto e rilievo. Dalla violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale derivano oggi possibili conseguenze soltanto per ciò che attiene l’addebito della separazione, istituto non previsto per le unioni civili.
Mancando la separazione personale (e conseguentemente l’addebito), la violazione dei doveri nascenti dall’unione civile rileverà soltanto ai fini di un’eventuale domanda di risarcimento del danno e, in caso di scioglimento dell’unione, ai fini della quantificazione dell’eventuale assegno di mantenimento per la parte economicamente più debole.

5. Il regime patrimoniale

Identico al matrimonio è il regime patrimoniale dell’unione civile: in mancanza di diversa scelta delle parti, si applica la comunione legale prevista per i coniugi.

6. Si applicano le norme sul matrimonio

Il comma 20 dell’art. 1 della legge 76/2016 stabilisce espressamente che all’unione civile si applicheranno soltanto le norme del codice civile relative al matrimonio espressamente richiamate dalla legge stessa; si applicheranno, inoltre, tutte le altre norme che si riferiscono al matrimonio (previste in leggi, regolamenti, atti amministrativi, contratti collettivi) “al solo fine di assicurare l’effettività di tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile“.
Tra le norme del codice civile richiamate dalla legge 76/16 si segnalano: l’art. 342 ter c.c. (ordini di protezione contro la violenza in famiglia), gli artt. 65 e 68 (effetti della dichiarazione di morte presunta); le norme in materia di nullità del vincolo (comma 5); le norme in materia di regime patrimoniale e delle convenzioni e di alimenti (comma 19); gli artt. 2118 e 2120 (indennità dovute al lavoratore); 116 (unione contratta dallo straniero in Italia), 146 (giusta causa di allontanamento e sequestro), 2647, 2653, 2569 (trascrizione).

7. In caso di morte di una persona unita civilmente

Ai fini successori la posizione dell’unito civilmente è equiparata a quella del coniuge per quanto attiene l’indegnità, la quota di legittima, l’ordine di chiamata nella successione legittima, la collazione ed il patto di famiglia.

8. Amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione

Inoltre, la persona unita civilmente assume un ruolo specifico nell’amministrazione di sostegno: il comma 15 dell’art. 1 della legge 76/2016 prevede che il Giudice tutelare debba preferire, dove possibile, nella scelta dell’amministratore di sostegno, la persona unita civilmente al beneficiario. Inoltre, l’unito civilmente può promuovere le procedure di interdizione ed inabilitazione.

9. Come si scioglie l’unione civile

L’unione civile si scioglie nei seguenti casi:
morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti
– in caso di sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
– per volontà di uno o di entrambi i componenti dell’unione. In questo caso, la procedura per lo scioglimento prevede che una o entrambe le parti debbano dichiarare la volontà di scioglimento innanzi all’Ufficiale di Stato civile e successivamente, decorsi tre mesi, chiedere al Tribunale lo scioglimento dell’unione.
Allo scioglimento dell’unione civile si applicano quasi tutte le norme del divorzio. Non è prevista, come detto, la separazione legale, ma soltanto un periodo di separazione di fatto, della durata di 3 mesi.

10. Quando diverranno effettive le unioni civili?

Le norme sulle unioni civili entreranno in vigore il 5 giugno  2016. Per la piena applicazione occorrerà, tuttavia, attendere l’emanazione dei decreti attuativi relativi, tra l’altro, alla tenuta dei Registri dello Stato civile (art. 1, comma 34  della legge). Presumibilmente, dunque, sarà possibile celebrare le prime unioni civili il prossimo autunno.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76

Contributo al mantenimento dei figli: come si paga

Come noto, l’obbligo di mantenere i figli cessa soltanto con il raggiungimento dell’indipendenza economica degli stessi. Si fa rinvio, al riguardo, al recente articolo sul mantenimento dei figli maggiorenni.
Una volta che la misura del contributo viene fissata in un provvedimento del Tribunale o nell’accordo raggiunto dalle parti a seguito di negoziazione assistita, il genitore obbligato è tenuto alla corresponsione in modo puntuale, rispettando le modalità ed i termini fissati dal giudice o convenuti nell’accordo.
In genere, viene stabilito che il versamento venga effettuato mediante bonifico sul conto corrente bancario o postale dell’avente diritto. In caso di figli minori, l’avente diritto è sempre il genitore convivente con il figlio. Può essere il genitore convivente anche quando il figlio abbia già raggiunto la maggiore età, in quando il pagamento diretto al figlio maggiorenne può essere effettuato soltanto allorchè vi sia l’autorizzazione in tal senso del Tribunale o l’accordo di entrambi i genitori.
Il bonifico rappresenta certamente il mezzo più sicuro e comodo per effettuare il versamento del contributo, ma può essere previsto anche il pagamento mediante assegno o vaglia postale o altri mezzi. Non ci sono regole fisse, tutto può essere adattato alle necessità degli interessati.
Inoltre, è frequente la previsione di un termine, di solito il 5 o il 10 di ciascun mese, entro il quale il versamento mensile dev’essere effettuato. In via consensuale, il termine può essere modulato caso per caso, tenendo conto, ad esempio, della data in cui il genitore tenuto al versamento dell’assegno riceve lo stipendio oppure di altri fattori.

Oltre al contributo fisso mensile, viene previsto il rimborso separato di determinate tipologie di spesa sostenute nell’interesse dei figli, quali le spese scolastiche, mediche, sportive e ricreative, accorpate nella voce “spese straordinarie”.
Dette spese vengono poste a carico di entrambi i genitori, in genere in misura del 50% ciascuno, ma la percentuale può variare in proporzione ai redditi ed al tenore di vita delle parti.
Non vi sono regole fisse nè per la determinazione della misura del concorso di ciascuno dei genitori, nè per quanto attiene l’indicazione delle voci di spesa da inserire nelle cd. “spese straordinarie”. Tutto è rimesso alla volontà delle parti ed alle prassi in uso nei singoli Tribunali.
Al riguardo, la Corte di Cassazione, con la recente sentenza 11894 del 9.6.2015, ha evidenziato come le spese straordinarie relative ai figli non possano essere quantificate in via forfettaria ed incluse nell’assegno mensile: esse devono, pertanto, essere regolamentate separatamente.

Le spese straordinarie vanno rimborsate al genitore che le abbia anticipate dall’altro genitore, previo rendiconto corredato dalla documentazione di spesa.
Le modalità del rimborso possono essere definite su accordo delle parti o stabilite dal giudice. A titolo esemplificativo, può essere previsto che il rendiconto delle spese debba essere trasmesso a cadenza periodica al genitore tenuto al versamento (ad esempio, ogni due o tre mesi) e che il pagamento debba essere effettuato entro un termine preciso (ad esempio, entro quindici giorni dall’invio del conteggio).
In mancanza di specifica previsione, il genitore avente diritto al rimborso può chiedere in qualsiasi momento il pagamento di quanto anticipato.

In caso mancato pagamento dell’assegno o delle spese straordinarie, l’altro genitore, o il figlio maggiorenne beneficiario del contributo al mantenimento, può agire in via esecutiva, mediante il pignoramento della retribuzione, del conto corrente o dei beni intestati al genitore obbligato.
L’azione per il recupero degli arretrati si prescrive nel termine di cinque anni per quanto attiene l’assegno mensile e nel termine di dieci anni per il rimborso delle spese straordinarie.
In caso di mancato rimborso delle spese straordinarie, per poter intraprendere l’esecuzione forzata, è necessario munirsi di un provvedimento del giudice che accerti l’ammontare effettivo del dovuto.
Il mancato versamento dell’assegno e delle spese straordinarie espone il genitore inadempiente anche al rischio di sanzioni penali.

Niente imposte e tasse per le cessioni immobiliari nella separazione e nel divorzio

Gli ultimi interventi legislativi in tema di separazione e divorzio vanno tutti nel senso del riconoscimento di una sempre maggiore autonomia negoziale alle parti. Si pensi alla normativa in materia di negoziazione assistita, con cui la separazione, il divorzio e la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio sono state svincolate dal passaggio in Tribunale, prima necessario.
In tale modo é stato riconosciuto un ruolo centrale alla libertà dei coniugi di disciplinare i reciproci rapporti, personali e patrimoniali, nella crisi coniugale.

Sulla stessa scia si colloca l’interpretazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, la quale é da ultimo intervenuta sul dibattuto tema dell’esenzione fiscale degli accordi patrimoniali, inclusi i trasferimenti immobiliari, inseriti dai coniugi negli accordi di separazione e di divorzio.

Al riguardo, vale ricordare che l’art.19 della legge 74/87, di modifica della legge 898/70 sul divorzio, ha sancito che “tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”.

La norma – applicabile anche alla separazione personale a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 154/99) – non presenta una formulazione chiara, ed in particolare ha generato dubbi interpretativi il termine “relativi” utilizzato per indicare gli “atti, documenti e provvedimenti ” esenti da tassazione.

Con una sentenza del 2001, la Corte di Cassazione aveva cercato di fare chiarezza, operando una distinzione tra accordi essenziali, che costituiscono il contenuto tipico della separazione o del divorzio, vale a dire la regolamentazione dei rapporti con i figli, l’ assegnazione della casa familiare ed il mantenimento) ed accordi occasionali, che sono stati raggiunti in occasione ed al momento della separazione o del divorzio, ma che non sono indispensabile ai fini della separazione o del divorzio. Tipico esempio di accordo occasione è il trasferimento della proprietà della casa coniugale o di una quota di essa da un coniuge all’altro ovvero il trasferimento della proprietà di altri beni immobili o mobili registrati.
Sulla base di questo distinguo, la Cassazione aveva precisato che l’esenzione fiscale operava soltanto per gli accordi essenziali, e non per gli accordi occasionali, i quali erano invece soggetti all’ordinario regime fiscale (Cass. civ. n. 1531/2001).
L’obiettivo era evitare condotte elusive, consistenti nell’inserimento nelle condizioni di separazione o di divorzio di patti traslativi, non effettivamente pertinenti con la separazione o il divorzio, al solo scopo di fruire dell’esenzione.

La recente sentenza n. 2111/16 del 3.2.2016 ha superato questa interpretazione, ed ha riconosciuto dunque l’applicabilità dell’esenzione da imposte e tasse di tutti gli accordi, inclusi i trasferimenti immobiliari, conclusi dai coniugi in sede di separazione o divorzio.
La Suprema Corte ha sottolineato come l’orientamento del 2001 sia oggi del tutto obsoleto, sia alla luce dell’evoluzione della normativa fiscale in materia di abuso del diritto (art. 10 bis della legge 212/2000, introdotto dal d. Lgs. 128/2015), sia in considerazione della recente apertura legislativa alla libertà negoziale dei coniugi.
Sottolineano i giudici delle leggi che oggi il consenso e l’accordo dei coniugi hanno un ruolo centrale nella definizione della crisi coniugale e nella regolamentazione dei rapporti reciproci, anche patrimoniali. Pertanto, tutti gli accordi raggiunti nell’ambito della definizione consensuale della separazione e del divorzio, comprese le cessioni di immobili, beneficiano dell’esenzione di cui all’art. 19.

Fonte: Cass. civ. sentenza n. 2111/2016 del 3.2.2016.

Quando cessa l’obbligo di mantenimento dei figli?

Contribuire al mantenimento della prole è un obbligo per i genitori che perdura anche oltre il compimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte del figlio.

Esso consiste, in buona sostanza, nel dovere di fornire al figlio gli strumenti per renderlo indipendente, mediante un’istruzione ed una formazione professionale rapportate alle sue aspirazioni e capacità, oltre che alle condizioni economiche e sociali dei genitori.

All’obbligo del genitore corrisponde il diritto del figlio ad essere mantenuto fino a che non dispone di entrate proprie, in grado di garantirgli di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, con appropriata collocazione in senso al corpo sociale.

Il rischio è, però, che si creino posizioni parassitarie, in cui il figlio, non più giovanissimo, si adagi in una situazione di comodo, continuando a vivere nella casa familiare ed a pesare sulle finanze di genitori sempre più anziani, pur disponendo di capacità lavorativa e della possibilità di essere economicamente indipendente.

La prova dell’effettivo raggiungimento dell’autonomia da parte del figlio spetta al genitore tenuto al versamento dell’assegno.

Al riguardo, la giurisprudenza ha più volte chiarito che non ha diritto ad essere mantenuto dai genitori il figlio che abbia concorso consapevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza, ad esempio, lasciando immotivatamente un’occupazione lavorativa o rifiutando di accettare un impiego adeguato alla sua formazione o non attivandosi nella ricerca di un lavoro o prolungando nel tempo gli studi universitari senza profitto.

In questo senso si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione, con una recente decisione riguardante la richiesta di un padre di essere esonerato dal concorrere al mantenimento di due figli maggiorenni, entrambi iscritti all’università, ma senza impegno (avevano entrambi dato pochi esami) e titolari di redditi da lavoro propri.

La Cassazione ha ribadito che “ il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica, ma pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita”.

La circostanza che i figli, pur avendo avuto dai genitori l’opportunità di frequentare l’università, avessero proseguito gli studi in modo inerte e senza trarne profitto è stata ritenuta valido motivo perla revoca del contributo paterno al loro mantenimento.

Fonte: Cass. civ. n. 1858/2016 del 1.2.2016